La divisione dello schermo in due o più parti è solitamente chiamata split-screen. Con questa tecnica, anziché ricorrere a una successione alternata di diverse inquadrature, le si mostra in contemporanea, mettendo in atto una sorta di riduzione del montaggio al piano dell’inquadratura. Va da sé che poi lo spettatore ha, di fatto, un maggior potere decisionale, in quanto può scegliere su quale degli elementi concentrarsi.
L’idea di un’inquadratura multipla, se pur incentivata dal digitale, ha ricevuto interesse (con modalità e scopi diversi) per tutto il corso della storia del cinema.
Già in The life of an american fireman (E. S. Porter – 1903), nell’inquadratura in cui un uomo sta pensando, in alto a destra appare (con un mascherino circolare) l’immagine della donna e della bambina a cui pensa.
Ma l’esempio più noto di moltiplicazione dell’immagine del periodo del cinema muto è quello del Napolèon (Abel Gance – 1927): con un sistema chiamato Polyvision (che utilizza 3 macchine da presa e 3 proiettori) riesce a mostrare sullo stesso schermo tre diverse immagini l’una accanto all’altra.
Tra gli anni Sessanta e Settanta la tecnica dello split-screen gode di una certa fama, grazie anche al successo che ha avuto il film Il letto racconta (Pillow Talk, M. Gordon – 1959) nel quale il regista non si limita alla classica suddivisione dello schermo in due parti, ma propone anche una soluzione più elaborata come quella della frammentazione triangolare.
In una scena, poi, si sfiorano i limiti del metacinema: entrambi i protagonisti sono nella vasca da bagno e i piedi nudi dei due interlocutori toccano i confini della porzione di schermo a loro assegnata, per un attimo si congiungono eroticamente fino a quando la donna, come se fosse sul serio colpita da un improvviso senso di imbarazzo, si ritrae.
Anche altri film, di genere diverso, si sono interessati alla tecnica: Il caso Thomas Crown (Norman Jewison – 1968), Airport (G. Seaton – 1970) o lo spettacolare uso che ne è stato fatto in Woodstock – Tre giorni di pace (Michael Wadleigh – 1970).
https://www.youtube.com/watch?v=V3xiuDhn9dE
Nel film di Jewison, nel particolare, non ci si limita a due o a tre riquadri, ma si arriva a numeri molto più alti e con formati o dimensioni diverse: spesso si trasforma il montaggio alternato in una compresenza simultanea di diverse immagini che rappresentano situazioni diverse avvenute simultaneamente.
https://www.youtube.com/watch?v=eKpw8T4aItg
Da notare è anche un utilizzo puramente estetico della tecnica quando il volto di Steve McQueen viene scomposto in più riquadri.
Con la fine degli anni Settanta lo split-screen vive un periodo poco fortunato e sopravvive soprattutto nel lavoro di Brian De Palma: Le due sorelle (1973), Carrie. Lo sguardo di Satana (1976), Blow Out (1981) o con Omicidio in diretta (1998).
Ma dagli anni Duemila lo split-screen ritorna a godere di una certa popolarità grazie a film come Jackie Brown e Kill Bill (Q. Tarantino – 1997 e 2003).
https://www.youtube.com/watch?v=E84OWq6z3IQ
A tale nuova diffusione non sono estranei gli sviluppi del cinema elettronico e digitale, che, di fatto, ne hanno reso la realizzazione più agevole. Nel documentario Appunti di viaggio su moda e città di Wim Wenders dà molta importanza al particolare rapporto che si è formato tra l’immagine cinematografica tradizionale (in pellicola) e quella digitale (di consistenza virtuale) e considera la seconda come meno intrusiva e la più adatta a una dimensione intima.
Con Timecode (Mike Figgis – 2000) il regista, sfruttando al meglio le nuove possibilità date dal digitale, dà vita a un nuovo tipo di inquadratura multipla: finestre (windows). In questo film si narrano le insolite vicende di alcuni personaggi legati tra loro da rapporti sentimentali e erotici: quattro piani sequenza, lunghi quanto tutto il film, che vengono proposti simultaneamente sullo schermo (diviso in quattro finestre di egual misura).
Le finestre vengono utilizzate in modo massiccio anche da Peter Greenaway nel film Le valige di Tulse Luper (2003) alle quali dà diversi significati a seconda della modalità di utilizzo: in alcuni casi la finestra opera una sorta di ritaglio da un contesto più ampio, per evidenziarne l’evento principale (facendo a meno del classico raccordo sull’asse che viene “ripreso” su un unico piano spaziale). In altre situazioni, la finestra si sovrappone a immagini che hanno una diversa collocazione spazio-temporale che, in alcuni casi limite, raggiunge anche valenze extradiegetiche: quando, ad esempio, nella scena del piccolo Ryan caduto a terra che chiede aiuto, i personaggi vengono trasformati nei loro interpreti perché hanno appeso al collo un cartello con il nome del loro personaggio.
In questi e in molti altri casi, l’utilizzo di tecniche come lo split-screen si evolvono in una logica puramente postmoderna: hanno un forte impatto estetico e spettacolare che viene accompagnato anche da un’evidente scrittura autoriale che nel postmodernismo ha un peso non indifferente.
Cira Pinto
Bibliografia:
· Introduzione alla storia del cinema, P. Bertetto.
· Manuale del film, G. Rondolino – D. Tomasi.
· http://www.andsoitbeginsfilms.com/2014/05/top-10-uses-of-split-screen.html