Cinema e tempo: quello perso e quello ritrovato

Come accade spesso nella rubrica Rewind the tape, anche questa volta ci approcciamo a una tematica che non segue in modo lineare il corso degli eventi, ma cos’è il cinema se non quell’arte che ha lottato fin dall’inizio con il tempo?

Di fatto, il compito della rubrica è quello di riavvolgere il nastro per averne una visione di insieme.

Cinema e tempo, un eterno dialogo

Il cinema e il rapporto con il tempo, abbiamo detto. Bergson, in uno dei suoi testi più importanti, l’Evoluzione creatrice, afferma che il nostro intelletto può essere paragonato al cinematografo:

«Invece di spingerci fino all’intimo divenire delle cose, noi ci collochiamo al di fuori di esse, per ricomporre artificialmente il loro divenire. Fissiamo delle immagini quasi istantanee sulla realtà che passa e, poiché esse sono caratteristiche di questa realtà, ci basta infilarle lungo un divenire astratto, uniforme, invisibile, situato al fondo dell’apparato della conoscenza, per riprodurre ciò che vi è di caratteristico in questo divenire medesimo».

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Per studiare un avvenimento, quindi, tendiamo a suddividerlo in una serie di elementi primi (istantanee) che, in realtà, ci dicono ben poco dell’elemento principale (anzi, ci sfugge del tutto): il divenire. Allo stesso modo funziona, secondo Bergson, il cinematografo.

Deleuze, nei monumentali testi dedicati al cinema (L’immagine-movimento e L’immagine-tempo), si preoccuperà innanzitutto di smentire tale affermazione. Il cinema a cui fa riferimento Bergson è quello degli inizi (con telecamera fissa e confusione tra ciò che viene impresso sulla pellicola e ciò che viene riprodotto), con il montaggio si darà voce a quello che è l’effettivo potenziale di quest’arte creatrice. Il cinema, con il montaggio, sarà in grado di creare le immagini-movimento: delle immagini che contengono in sé il movimento (non viene dato a loro in un secondo momento con la successione meccanica).

Il cinema non è solo in grado di creare delle immagini-movimento, Deleuze afferma che il cinema è stato in grado di andare oltre: ha creato delle immagini-tempo, delle immagini che non tendono a cristallizzare il tempo, a renderlo immobile privandolo della qualità del divenire, ma che ne presentano un’immagine stratificata; nella quale i diversi momenti sono in grado di sovrapporsi e coesistere (il tema del falso).

A questo punto è chiara la lotta costante tra il cinema e il tempo, ancora Deleuze è in grado di fornirci un’importante informazione: il cinema parla sempre di qualcosa che non c’è.

L’idea di un’immagine in diretta, presentificata, non è propria del cinema, ma della televisione:

«La grande inferiorità della televisione sta nel fatto che essa si ferma a delle immagini del presente, presentifica tutto, tranne quando è diretta dai grandi cineasti. L’idea dell’immagine al presente qualifica solo le opere mediocri o commerciali. È un’idea preconcetta e falsata, il tipo stesso di una falsa evidenza»[1].

Una grande opera cinematografica è, infatti, in grado di contenere numerosi spazi-tempo, hanno una durata interna (le luci, i ritmi e gli spazi diventano dei veri e propri personaggi). È questo l’elemento creativo del cinema.

Il cinema parla di qualcosa che non c’è (che non c’è mai stato o che non c’è più) e parla, quindi, di fantasmi.

È forse questo, in realtà, il vero e proprio paragone che può essere fatto tra il cinema e il nostro intelletto: la capacità di creare, di dare forma ai fantasmi, a delle immagini generate dalla fantasia e non legate in alcun modo a quella che convenzionalmente può essere chiamata realtà.

Ed è proprio il protagonista di Memento (C. Nolan, 2000) che, ancora una volta, ci viene alla mente: Leonard Shelby lotta costantemente con la sua incapacità di ricordare, tenta di fissare i ricordi con ogni mezzo: tatuaggi, istantanee.

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Ma, questi elementi, quanto possono essere considerati veritieri?

«La memoria può cambiare la forma di una stanza, il colore di una macchina. I ricordi possono essere distorti; sono una nostra interpretazione, non sono la realtà; sono irrilevanti rispetto ai fatti».

Se è pur vero che i ricordi possono essere fallaci, delle pure interpretazioni, non si può affermare il contrario nemmeno delle istantanee che costantemente scatta, esse non fanno altro che appiattire a una sola dimensione un evento che si sviluppa in senso qualitativo e non estensivo.

Lo stesso complicato viaggio nella memoria è toccato, 39 anni prima, ai protagonisti di L’anno scorso a Marienbad (A. Resnais, 1961). Il protagonista maschile tenta di far ricordare alla donna il loro incontro avvenuto l’anno precedente, di cui lei non ricorda nulla.

«Ho sempre creduto di avere tempo».

E in realtà il tempo ci sfugge costantemente, è irripetibile e irrecuperabile.

«Had to get the train

From Potsdamer Platz

You never knew that

That I could do that

Just walking the dead»

Ma se è impossibile riportare alla luce qualcosa che non si è depositato nello scantinato della nostra memoria è altrettanto impossibile dimenticare del tutto degli eventi che invece si sono impressi nella nostra coscienza.

Ed è questo il caso di Eternal Sunshine of the Spotless Mind (M. Gondry, 2004). Il titolo è tratto da un verso dell’opera Eloisa to Abelard (1717) del poeta inglese Alexander Pope:

«Com’è felice il destino dell’incolpevole vestale!

Dimentica del mondo, dal mondo dimenticata.

Infinita letizia della mente candida!

Accettata ogni preghiera e rinunciato a ogni desiderio»

La letizia della mente candida (che non possiede alcun ricordo) è infinita perché non si può sentire la mancanza di un qualcosa che non si è mai avuto. Allo stesso modo, infinita è la dannazione di una mente che è stata macchiata inesorabilmente dai ricordi, che non faranno altro che riaffiorare, costantemente.

«Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente, e solitamente nascosta, delle cose sia liberata, e il nostro vero io che, talvolta da molto tempo, sembrava morto, anche se non lo era ancora del tutto, si svegli, si animi ricevendo il celeste nutrimento che gli è così recato. Un istante affrancato dall’ordine del tempo ha ricreato in noi, perché lo si avverta, l’uomo affrancato dall’ordine del tempo»

Proust – Il tempo ritrovato.

Se è pur vero che, a volte, è necessario dimenticare (il nostro cervello lo fa costantemente con le informazioni che non solo possono essere inutili ma che potrebbero essere addirittura dannose), lasciar andare via delle cose per riuscire a liberarsi di quella che potrebbe essere definita la gabbia del tempo. Ma anche dimenticare per ricordare meglio, ricordare bene.

Una dimenticanza attiva, che ci dà costantemente la possibilità di ri-vivere e di guardare avanti con lo sguardo sempre colmo di stupore e meraviglia.

Ed è questo quello che sceglieranno di fare Joel e Clementine, tornare indietro e ri-cominciare (ricordando).

Ri-vivere il loro amore re-incontrandosi, a Montauk.

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Cira Pinto

Bibliografia essenziale:

    • ID., L’immagine-tempo.

[1] G. DELEUZE, Il cervello è lo schermo, in Due regimi di folli e altri scritti, cit., p. 127.