C’è un momento, nella vita di ogni grande artista e di un regista cinematografico in particolare, dove lo slancio creativo e la volontà di osservare il mondo lasciano il posto ad una visione narrativa puramente intimistica. Per molti poi, la vecchiaia coincide con la mancanza di idee e col disperato tentativo di tenere ancora alto il proprio mito, anche quando ormai non si ha più realmente qualcosa da dire. Fortunatamente per Martin Scorsese questo momento non è mai arrivato.
Il grande regista italoamericano riesce, ancora oggi, a fondere alla perfezione il suo continuo “guardarsi dentro” con una visione chiara, spesso cinica ma sempre efficace e veritiera del mondo che ci circonda. Scorsese nasce nella Little Italy newyorkese degli anni quaranta, figlio di una modesta famiglia operaia di origini italiane (i genitori erano emigrati entrambi dalla Sicilia quando erano ancora in fasce, nei primi anni del Novecento). Il quartiere non ha molte prospettive da offrire e di certo somiglia poco all’immagine folkloristica che ce ne è spesso data proprio dal cinema americano. Erano quelli i tempi della lotta senza quartiere tra le sette famiglie mafiose della “Grande Mela”, gli anni della guerra, gli anni in cui essere figli di immigrati rappresentava ancora una discriminante. Il piccolo Martin si affida quindi alla religione per lenire le proprie sofferenze.
“Quando ero piccolo, nel mio quartiere, avevi due strade da poter percorrere: potevi scegliere se fare il gangster o il prete. Io scelsi la seconda” – affermerà qualche anno dopo il regista, parlando del suo percorso – fortunatamente per noi – fallito in seminario, cosa quantomeno indicativa per descrivere il suo rapporto con la religione. Religione che sarà poi alla base di tutta la sua cinematografia.
Dopo aver girato qualche cortometraggio, tra cui il bellissimo e macabro The Big Shave (La grande rasatura, 1967), e una serie di documentari, Scorsese esordisce nel 1969 col suo primo lungometraggio, il realistico dramma autobiografico “Chi sta bussando alla mia porta?“, con protagonista Harvey Keitel. E proprio Keitel, il suo primo attore feticcio, interpreterà il giovane e schivo Charlie nella prima pellicola veramente di successo nella cinematografia scorsesiana, il bellissimo Mean Streets (1973), un film con una trama poco complessa in cui ruotano tutta una serie di personaggi emarginati e in guerra con se stessi, in una Little Italy spietata che si muove sulle note malinconiche della musica napoletana. Tra tutti questi personaggi svetta il ribelle e poco acuto bambinone Johnny Boy, un giovane Robert De Niro.
Mean Streets rappresenta dunque una pietra miliare della storia del cinema perché è il punto d’incontro tra quello che è (forse) il maggiore cineasta della New Hollywood, con il più versatile (ed incisivo) degli attori che emeresero nel cinema post guerra del Vietnam.
Il sodalizio artistico Scorsese-De Niro stava per cambiare per sempre la storia della cinematografia e questo fu chiaro fin dal primo film scorsesiano con De Niro protagonista: era il 1976 quando uscì Taxi Driver. Scorsese delinea la sua linea narrativa, attraverso la violenza, il senso di colpa, l’alienazione dalla società, utilizzando un attore capace di esprimere tutto questo ad ogni inquadratura. Il film vince la Palma d’Oro a Cannes.
Hollywood non sarebbe stata più la stessa.
Ma la vita privata del regista comincia a cadere a pezzi: il divorzio dalla prima moglie, l’alcol, le donne e soprattutto la forte dipendenza dalla cocaina spingono Martin Scorsese sull’orlo del baratro. È troppo inaffidabile, nessuno vuole più lavorare con lui.
Un talento sfumato troppo in fretta quindi? Niente affatto. In suo soccorso arriva infatti l’eterno amico Robert De Niro (nel frattempo diventato una superstar), che obbliga de facto il produttore Irwin Winkler ad affidare all’ormai screditato Scorsese il suo prossimo film. È la storia della vita violenta del pugile Jake La Motta, fuoriclasse della boxe votato all’autodistruzione, la cui grandezza traballa sotto i colpi di un’esistenza quantomeno oscura, proprio come Martin Scorsese. Quando esce, nel 1981, Toro Scatenato non ottiene un grande successo di pubblico. Ma la critica è esterrefatta. La più grande interpretazione della carriera di De Niro regala a Scorsese il suo film più bello. La carriera del grande cineasta newyorkese raggiunge uno dei suoi apici.
Il suo lavoro successivo, la commedia musicale Re per una notte (1983, di nuovo con l’inseparabile De Niro), è però un flop. Il regista sembra dover tornare nell’abisso.
Ma i grandi, si sa, riescono a fare di necessità virtù. Con pochi soldi e tante idee Martin Scorsese gira, nel 1985, il grottesco Fuori orario, storia di un folle viaggio in una New York notturna e desolata. Il film è tutt’oggi considerato un gioiello di tecnica cinematografica ed è entrato di diritto nei manuali didattici del cinema.
Quella della seconda metà degli anni ’80 può essere considerata una fase transitiva per il regista di Little Italy, che gira il discusso L’ultima tentazione di Cristo (boicottato da molte associazioni fondamentaliste cattoliche in tutto il mondo) e New York Stories, film poco riuscito dove affianca altri giganti come Francis Ford Coppola e Woody Allen.
La fine di questa transizione arriva nel 1990. Scorsese decide di raccontare la mafia nel suo quotidiano, attraverso una sorta di “bestiario” dei gangster. Esce Quei bravi ragazzi e il mondo è di nuovo ai piedi di Martin Scorsese. Affianco al monumentale De Niro e all’ottimo Ray Liotta giganteggia la figura (per la verità minuta) di Joe Pesci, vincitore dell’Oscar per l’interpretazione del violento gangster Tommy DeVito. Seguono altri due film di altissimo livello: Cape Fear (1991) e Casinò (1995), entrambi con De Niro, che dopo ben otto film chiude (forse momentaneamente) il suo sodalizio con il regista newyorkese.
Ma Scorsese è Scorsese e i lunghi sodalizi sono per lui la regola. Sente quindi il bisogno di un altro “punto fermo”.Lo trova nel 2002. Leonardo Di Caprio comincia il suo sodalizio con Scorsese con Gangs of New York, film che rappresenta un nuovo inizio per il cinema dell’allora sessantenne regista, che diventa ancora più frenetico e si allontana dalle bizzarre e maledette figure dei gangster italoamericani.
Il film è un successo di critica e pubblico, ricevendo ben dieci candidature all’Oscar, di cui però non ne vincerà (incredibilmente) nessuna.
Seguono quindi The Aviator (2004) e l’intricato The Departed (2006), grazie al quale il regista vince, dopo quarant’anni di capolavori, il suo primo Oscar da regista.
È l’epilogo del rapporto, sempre conflittuale, che il regista ha avuto con l’Academy.
Negli ultimi anni Martin Scorsese ha continuato a girare film di altissimo livello, basti pensare all’inquietante Shutter Island (2010), al bellissimo Hugo Cabret (2011) e al fulminante The Wolf of Wall Street (2013).
Alla veneranda età di 75 anni quest’uomo non ha alcuna intenzione di fermarsi: a gennaio uscirà il suo prossimo film, Silence, altro film con la religione come tema portante. Si parla intanto di un film sulla quale il regista è al lavoro, con il ritorno del sodalizio tra Scorsese stesso e la coppia Robert De Niro-Joe Pesci.
Senso di colpa, violenza, religione, alienazione, nevrosi: i film di Martin Scorsese sono pregni di tutto questo. Nel corso degli anni il regista non ha perso neanche una goccia del suo talento e del suo slancio narrativo. Le sue donne, bionde, pure e vestite di bianco sono stati gli innocenti angeli danteschi nella cupa cinematografia della New Hollywood.
La sua violenza realistica ha lasciato sgomente generazioni di cinefili, i suoi amori destinati ad appassire ci hanno fatto piangere, l’alienazione dei suoi personaggi reietti ci ha spinti ad interrogarci su noi stessi e a non farci irretire dalla superficialità. I suoi film hanno ispirato centinaia di artisti e di grandi opere (basti pensare, per esempio, alla serie televisiva “I Soprano”). La sua poetica, le sue innovazioni stilistiche, i suoi personaggi e, soprattutto, la sua varietà e la sua continuità in ormai cinquant’anni di carriera rendono questo minuto uomo, nato in una famiglia operaia nella New York degli anni quaranta, il più grande cineasta vivente.
Domenico Vitale