La Sorte, come concetto o personificazione, appartiene da sempre a ogni cultura umana, e il mondo greco anche in questo non fa eccezione, con la presenza delle Moire prima e della Tyche poi.
Gli Elleni avevano un termine preciso per identificare il fato: μοῖρα, “moira”, parola che viene dal verbo μείρομαι, “meìromai”, che significa “avere in parte”. I Greci, infatti, avevano un’idea molto particolare del destino: ad ognuno di noi tocca una fetta della sorte umana, che nemmeno gli dei possono cambiare.
Le Moire infatti, personificate in Cloto, Lachesi e Atropo, controllano addirittura il mondo divino e sono superiori ad esso (interessante come questa gerarchia sia passata al mondo etrusco, dove Tinia, la sorte, è riconosciuta al di sopra delle divinità, e molto meno a quello romano, dove le tre sono dette Parche).
La Sorte nella letteratura arcaica
Le più antiche testimonianze sulla moira nella letteratura greca risalgono ad Omero, dove la sorte è spesso associata a Zeus e all’immagine di due vasi, da cui il dio “pesca” gioie e dolori per ognuno. Nausicaa, infatti, nel rivolgersi ad Ulisse, gli ricorda:
“Straniero, non sembri uomo stolto o malvagio,
ma Zeus Olimpio, lui stesso, divide fortuna tra uomini,
buoni e cattivi, come vuole e ciascuno:
a te ha dato questo, bisogna che tu lo sopporti.”
(Hom., Od., VI, vv. 187-190)
La personificazione in tre divinità distinte, invece, si ritrova solo in Esiodo e nella sua Teogonia. Il poeta nell’opera traccia la nascita e la genealogia delle varie divinità, senza escludere le tre Moire:
“E le Moire e le Kere (Notte) generò spietate nel dar le pene:
Cloto e Lachesi e Atropo, che ai mortali
quando son nati danno da avere il bene e il male,
che di uomini e dei i delitti perseguono.”
(Hes., Theog., vv. 211-222)
In realtà la paternità delle Moire è assai discussa: Esiodo, appunto, le reputa figlie di Notte, ma Pindaro, probabilmente per sottolineare l’eguale potenza di Zeus, le sottomette a lui rendendole sue figlie. Interessante come invece il mondo orfico, misterico, le reputi figlie di Urano e Gea, e dunque nate contemporaneamente agli dei, agli uomini e al mondo stesso, all’origine del tempo. Altra versione è che siano figlie di Ananke, la necessità, spesso confusa con esse.
L’età ellenistica: la Tyche
In età ellenistica tutto il mondo greco viene investito da un profondo cambiamento, e anche la letteratura si rinnova con esso. Nel nostro preciso caso, anche il concetto di sorte vira verso un’idea molto più filosofica: essa è Τύχη, tyche, la forza che controlla l’agire e la vita umana. La personalità che forse più di tutte influenzò la riflessione greca in quest’epoca è Epicuro, che nella “Lettera a Meneceo” scrive:
“La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa – la divinità non fa nulla a caso – e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l’avvio a grandi beni o mali.”
(Epic., Lettera a Meneceo)
Menandro, poco dopo di lui (probabilmente influenzato dallo stesso filosofo che conobbe in giovinezza), fonda l’intera ideologia delle sue commedie su Tyche. I protagonisti, infatti, sono totalmente in balia delle angherie della sorte, che “scompiglia” le vite di ciascuno, per poi riordinarle secondo un ordine più giusto e conforme al buon costume. Tyche è spesso personaggio delle stesse commedie, come nello “Scudo”, dove parla al pubblico e solo alla fine del monologo svela la sua identità:
“ Quello che resta è dirvi il mio nome: sono la dea che arbitra e amministra tutte queste vicende, Tyche ”.
(Men., Aspis, v. 111-112)
In questo periodo, però, la sorte è decisamente meno legata al concetto di “necessità”, in quanto, anche in Menandro, gli episodi che vivono i protagonisti sarebbero avvenuti ugualmente anche senza l’intervento della forza provvidenziale.
Il tardoantico
L’avvento del Cristianesimo cambia decisamente le carte in tavola. La letteratura tardo-antica infatti risente molto del nuovo clima culturale, ed è prevedibile che un concetto così “pagano” e filosofico sia andato sparendo, rimpiazzato da quello cristiano di “libero arbitrio”. Nonostante ciò, anche un fedele come Nonno di Panopoli scrive nel passo in cui Oceano, nonno di Fetonte, si accorge del destino di morte prematura del nipote:
“E il vecchio, vedendo ciò, gemette, riconoscendo la sua amara sorte”.
(Nonnus, Dion., 38, vv. 163-164)
Ma senza alcun dubbio la vera forza della letteratura greca è il suo modo di sopravvivere attraverso i secoli. Chiudiamo con dei meravigliosi versi tratti da “Ultimo canto di Saffo” di Leopardi, che testimoniano ciò:
“E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de’ casi. […]
Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perìr gl’inganni e il sogno
Della mia fanciullezza.”
(G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 57-65)
Alessia Amante