Dal 4 novembre al 12 febbraio 2017 la sede della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, a Torino, si trasforma in uno scenario di forte impatto emotivo, dove sculture, video ed installazioni travalicano i limiti del reale e concorrono a proiettare il visitatore alle soglie di un futuro desolante.
Si tratta della prima personale in Italia dell’artista statunitense Josh Kline, dal titolo emblematico Unemployment. I lavori esposti vanno ad indagare con occhio critico e grande lucidità di pensiero i processi economici, politici e sociali che coinvolgono, e travalgono, i Paesi sviluppati ed in primis la società americana.
Unemployment è in realtà la tappa più recente di un percorso di riflessione inaugurato da precedenti mostre. La prima di questo ciclo è stata Freedom (2015-2016), frutto di un’analisi delle strategie politiche, degli effetti della privatizzazione dei beni sulla democrazia, del controllo esercitato quotidianamente dalle forze economiche e politiche e dalla polizia. L’artista, ispirandosi al movimento Occupy Wall Street del 2011 che presso lo Zuccotti Park denunciò pacificamente una serie di abusi da parte del capitalismo, ha scelto dei famosi personaggi dei cartoni animati, i Teletubbies, trasformandoli in poliziotti con tenuta antisommossa e inserendo nel loro addome schermi che trasmettevano video, in cui identità e parole di attivisti online si fondevano con quelle di poliziotti in pensione, attraverso la trasposizione dei volti dei primi sui secondi. Altra grande opera è Hope and Change (2015), il remake del discorso inaugurale del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: Kline, utilizzando un software di sostituzione facciale, ha elaborato una nuova versione di quel discorso, mostrando quei cambiamenti che la presidenza avrebbe potuto determinare.
Unemployment: previsioni di un tragico futuro
Ma ecco che con Unemployment l’artista ha fatto un salto in avanti: non ha affrontato il presente, ma ha cercato di prefigurare gli sviluppi successivi. Kline ha ‘costruito’ una macchina del tempo, catapultando il visitatore negli anni ̔ 30 del 2000 per mostrargli le possibili conseguenze di una nuova crisi economica, come quella scoppiata nel 2008. Protagonista di questo pronostico è la classe media che rischia di essere dequalificata e mortificata dalla sempre più invadente automazione nei processi produttivi. Le macchine rischiano di sostituire definitivamente le persone; da qui la disoccupazione, che è anche il titolo della personale.
Avanzando nelle sale in cui la mostra è allestita, la sensazione è quella di percorrere il set cinematografico di un film di fantascienza. In effetti l’artista, avvalendosi di vari mezzi espressivi, sviluppa un vero e proprio racconto, cupo e inquietante. Se nella prima sala in strutture di vetro sospese in aria, che hanno evidentemente la forma di virus, sono racchiuse le tipiche scatole utilizzate negli Stati Uniti per riporre gli effetti personali degli impiegati licenziati, nella seconda la scena cui ci si trova di fronte è ancora più angosciante: sul pavimento sono disseminati dei corpi umani estremamente realistici, sia donne che uomini, in posizione fetale e letteralmente impacchettati, chiusi in buste in polietilene, come fossero oggetti utilizzati, ormai inutili e pronti per essere gettati via, come insegna il consumismo; il messaggio è rafforzato dalla presenza, attorno ai corpi, di carrelli per la spesa pieni di stampi di bottiglie di plastica, lattine ed altri rifiuti, anch’essi raccolti in buste. Per realizzare queste sculture in gesso così verosimili, Kline ha scelto come suoi modelli alcuni disoccupati di Baltimora; ognuno di loro è stato fotografato con circa ottanta apparecchi digitali che hanno scattato contemporaneamente e hanno prodotto un’immagine tridimensionale, stampata poi al computer.
A questo punto potrebbe sembrare contraddittorio e paradossale il fatto che Kline si avvalga delle tecnologie più avanzate, nel momento in cui ne addita uno spasmodico utilizzo che potrebbe mettere in pericolo il lavoro umano. In realtà l’artista avrebbe scelto lucidamente di non evadere dal contesto che critica, ma di operare all’interno di esso per studiarlo più a fondo, per essere pienamente e profondamente consapevole di ciò che sta denunciando.
Tornando alla mostra, l’epilogo è del tutto sorprendente, perché contempla quella possibilità di riscatto che nelle sale precedenti sembrava solo un miraggio: nell’ultimo ambiente il fruitore può vedere su uno schermo un video con immagini di vita quotidiana, accompagnate da slogan che invitano ad imparare, aiutare, condividere, ricostruire, amare, vivere. Kline ammette così che il collasso è evitabile, ma a patto che il reddito venga equamente redistribuito: è questo il reale pensiero dell’artista o si tratta piuttosto dell’ennesimo strumento per ironizzare sulle strategie comunicative della politica?
Emanuela Ingenito