Amore tossico è il lungometraggio d’esordio di Claudio Caligari (Arona, 7 Febbraio 1948 – Roma, 26 maggio 2015). Il regista romano cominciò la sua carriera verso la metà degli anni Settanta, con alcuni documentari sulle problematiche giovanili. In particolare, egli si concentrò sulla dipendenza dall’eroina, che si stava diffondendo in Italia proprio in quegli anni.
Dopo aver girato già un documentario, intitolato Perché droga (1976), Caligari decise di trattare l’argomento anche in un film di fiction. Da quel momento partirono le ricerche per girare Amore tossico.
La fase di preparazione
L’idea del film, come affermò lo stesso regista in un’intervista, nasceva da un bisogno di trattare in maniera approfondita la fenomenologia della sostanza. Per evitare i toni pietistici dei giornali e dei media, l’autore, insieme al sociologo Guido Blumir, entrò in stretto contatto con la realtà dei giovani abitanti delle borgate post-pasoliniane, flagellate dall’eroina.
Ne è risultato un film dal marcato impianto documentaristico. Gli attori erano tutti ex tossicodipendenti e, quindi, non professionisti. Essi parteciparono non solo alle riprese, ma furono fondamentali anche in fase di sceneggiatura. Mischiandosi tra di loro, infatti, Caligari e Blumir riuscirono a cogliere le motivazioni fondamentali che li spingevano al consumo di droga.
Inoltre, grazie alle loro “consulenze” i due sceneggiatori ne registrarono il peculiare linguaggio. Il modo di parlare dei protagonisti di Amore tossico è un miscuglio di dialetto romano, gergo malavitoso, gergo della droga che donano al film una grande espressività. Questa caratteristica, insieme a quelle che abbiamo accennato in precedenza, inscrivono l’opera di Caligari nella corrente cinematografica italiana per eccellenza: il Neorealismo.
L’universo chiuso di Amore tossico
Un gruppo di giovani tossicodipendenti romani: Cesare, Michela, Enzo, Ciopper, Massimo, Loredana, Teresa, trascorrono le loro giornate in un’infinita routine, tra il consumo di eroina e il modo di procurarsi i soldi per comprarla. È la sostanza che scandisce le vite di questi ragazzi. Quasi tutto il film è incentrato sui vari metodi coi quali i giovani possono “svorta’” e comprarsi lo “schizzo”.
Questi si incontrano tra Ostia e Roma alla ricerca della loro unica ragione di vita. Quando l’astinenza si fa troppo forte, vanno al Sert (Servizi per le tossicodipendenze) alla ricerca di metadone. Il luogo che dovrebbe aiutarli a disintossicarsi, però, diventa luogo d’incontro e di organizzazione, per procurarsi qualche soldo e per ritornare a bucarsi. Cesare cerca di fare una rapina, con la quale rimedia solo ventimila lire. Loredana comincia a prostituirsi per la lunga astinenza.
Da tutte queste circostanze viene fuori un documento tragico, ma allo stesso tempo “comico” per le assurdità delle situazioni, grottesco, ma diretto e morboso. Le riprese dei momenti delle iniezioni sono vere (anche quella del buco sul collo), anche se la sostanza iniettata non era eroina, ma si trattava di soluzioni fisiologiche. Secondo il regista la cosa più difficile fu proprio convincere gli attori a iniettarsi sostanze disintossicanti.
Non c’è più niente da scopri’! Io c’ho voglia de cose nove… È un po’ che ce penso. Stamo tutto il giorno a sbattese, a rovinasse la vita e se perdemo tutto il resto. (Michela)
Ma si tratta di una gara persa in partenza. Sarà la decima o la quindicesima volta che provano a smettere. I due continueranno a bucarsi. La prima volta a casa di Patrizia, l’amica artista del gruppo. Dopo essersi iniettati l’eroina, Cesare e Patrizia tirano un po’ di sangue con la siringa e lo spruzzano su di una tela. Così commenta Cesare:
Questo si ch’è un quadro vero: fatto de vita, fatto de morte, fatto de sangue… de sangue nostro. (Cesare)
Questa frase sembra racchiudere il senso profondo di tutto il film e anticiparne il finale, quando Cesare e Michela si inietteranno “l’ultima dose”.
Caligari e Pasolini
Lo stile registico, che richiama il documentarismo, e rappresenta l’ambientazione delle borgate, portano ad accostare Amore Tossico ai primi film di Pasolini, in particolare ad Accattone (1961). Sia il protagonista del regista friulano che i ragazzi di Caligari, infatti, appaiono prigionieri di un ambiente chiuso, da cui non è possibile uscire, se non con la morte.
Accattone, come Cesare e gli altri rappresentano una sorta di scandalosa diversità per la società capitalistica e piccolo-borghese. I risultati sono due: la ghettizzazione e la carcerazione.
Una delle scene di Amore tossico, infatti, prevedeva l’arresto di Cesare e il suicidio di un suo compagno di cella. In preda a una crisi di astinenza, questo personaggio avrebbe dovuto invocare, inascoltato, l’aiuto dei secondini per poi impiccarsi. Una scena che non può non far pensare alla morte di Ettore in Mamma Roma (1962). Le proteste di Cesare avrebbero, poi, portato i guardiani a pestarlo. Peccato che questa scena non sia mai stata girata.
Come per Accattone, l’unica reazione, da parte della società, è quella della repressione di qualsiasi cosa che non si accordi con la norma del buon senso e della grigia stabilità.
Il quadro tracciato da Caligari, tuttavia, appare molto più cupo. La spinta vitalistica, dettata della fame atavica e dal sesso del protagonista di Pasolini, è completamente anestetizzata in Amore tossico.
La graduale perdita del vitalismo è rispecchiata dai ricordi di Cesare nel finale. Il flash-back riprende le prime esperienze felici dei ragazzi con la droga: con la cocaina e altre droghe eccitanti. Il passaggio di sostanza in sostanza, rappresenta non solo la graduale anestetizzazione del loro ardore giovanile. Essa è paradigma dei tempi di diffusione della droga in Italia alla fine degli anni Settanta.
Giuseppe Mele