Carlo Michelstaedter incarna perfettamente la figura dell’intellettuale novecentesco inquieto e incerto, pronto a mettere sul banco di prova l’io e soprattutto i costrutti ontologici sui quali si sorregge la sua esistenza. Egli arriva così ad elaborare un pensiero filosofico considerato dai più alquanto radicale, se non altro per le contraddizioni che porta con sé. Infatti se condotto ai suoi risvolti più estremi il sistema che egli delinea implica il fallimento della sua stessa filosofia.
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Michelstaedter: uno sguardo all’uomo
Nato a Gorizia nel 1887, egli presenta fin da subito una personalità poliedrica, accompagnata da un forte desiderio di conoscenza. Ciò è ampiamente comprovato dalle svariate attività alle quali si dedica già nei primissimi anni della sua vita: letteratura, pittura, poesia. Febbrilmente egli porta avanti gli studi e procede con la stesura dei suoi scritti. A determinare l’impronta tragica del suo pensiero saranno di certo una serie di eventi spiacevoli, che lo toccheranno profondamente: la morte per suicidio del fratello e successivamente quella dell’amata Nadia. È così che l’attività filosofica diventa per Michelstaedter un modo per mettere a nudo le sfumature più controverse e malinconiche della sua anima.
Nonostante la giovane età, egli si confronta ben presto con i grandi temi dell’esistenza: libertà, volontà, vita e morte. A tal proposito potremmo definire un vero e proprio testamento del pensiero di Michelstaedter la sua tesi scritta e mai discussa, dal titolo La persuasione e la rettorica. Qui egli, sovvertendo in modo radicale il significato usuale dei due termini, esprime, con un tono a tratti poetico e a tratti delirante, tutte le debolezze e i limiti dell’esistenza. Questi ultimi sono forse gli stessi che lo spingeranno a mettere fine alla sua vita alla sola età di 23 anni.
La persuasione non vive in chi non vive solo di sé stesso
Con queste parole Michelstaedter esordisce nella prima parte dello scritto suddetto, ove si appresta a descrivere la persuasione. È evidente che quest’ultima non debba essere concepita come il tentativo di convincere qualcuno ad abbracciare le nostre ragioni. Il filosofo di Gorizia la intende piuttosto come il possesso di sé, la pura immediatezza dell’io. Per perseguire la strada della persuasione l’individuo dovrebbe mettere al bando ogni mediazione in cui si trova sempre intricato. L’uomo comune è invece un uomo rettorico, che traduce il possesso in volontà di possesso, così come la coscienza a sua volta non è mai autonoma per sé, perché si afferma sempre in relazione ad un’altra coscienza. Per Michelstaedter la volontà dell’uomo invece non è mai pienamente soddisfatta, sia perché in qualche modo finisce sempre per attorcigliarsi intorno alla volontà altrui, sia perché, mancando se stessa nel presente, si proietta nel futuro.
Se, a fronte di quanto detto, qualcuno tentasse di confutare la teoria di Michelstaedter, sostenendo che in verità la gioia esiste, egli potrebbe replicare con queste parole:
E la gioia troppo forte infine, che mettendo in un tratto nel presente tutto ciò per cui uno viveva e a cui attribuiva assoluto valore, gli toglie la ragione di vivere, mentre non saziandolo del tutto lo fa voler ancora senza saper più cosa: impotentemente.
La rettorica, dunque, non è altro che ingannarsi sulla possibilità di soddisfare i propri desideri. La felicità non viene mai raggiunta e tale impotenza conduce l’uomo alla disperazione. Michelstaedter, annullando la dicotomia tra gli estremi, arriva allora ad identificare la gioia con il dolore. Ancora, sulla stessa scia dell’epigramma catulliano, egli elimina la distanza tra amore e odio e persino quella tra vita e morte.
Contraddizioni e incomunicabilità
Se teoricamente il discorso presenta una coerenza interna, nella pratica raggiungere lo stato di individualità al quale egli aspira appare un’impresa tutt’altro che semplice. Innanzitutto Michelstaedter cade più volte in contraddizione, perché, da un lato, ravvede una forma di speranza nella liberazione dell’uomo da qualsivoglia forma di indottrinamento e, dall’altro, sostiene la disperazione che deriva da ciò. Peraltro l’individualità può avere carattere illusorio, poiché fa credere all’uomo di aver in sé ciò di cui ha bisogno e dà a quest’ultimo l’apparenza dell’amore, che implica sempre la mediazione nell’altro. Ci si potrebbe poi chiedere come può l’uomo abbandonare l’impulso desiderante, che per Lacan è ciò che propriamente lo costituisce, e accettare semplicemente la vita come il dispiegamento dell’insoddisfazione e della sofferenza.
Lo snodo che appare sicuramente più problematico nella riflessione di Michelstaedter riguarda infine l’incomunicabilità della via della persuasione, che sola potrebbe risollevare l’uomo dalle illusioni e ricondurlo nell’unica dimensione che gli compete, quella dell’impossibilità di realizzare se stesso. Al riguardo egli scrive:
La via della persuasione non è corsa da tutti, non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare, ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l’indice, poiché ognuno è solo e non può sperar aiuto che da sé.
A questo punto verrebbe da pensare, nell’ottica del pensiero di Michelstaedter, che il suo tentativo di ricondurre l’uomo alla persuasione sia tanto vano, ammessa l’impossibilità di indicare agli altri questo percorso, quanto auto-contraddittorio, poiché a sua volta egli stesso manifesta l’esigenza di dare forma al suo pensiero attraverso la mediazione del linguaggio. Si tratta di un vero e proprio punto di impossibilità, che può essere sciolto laddove si prenda in carico solo una parte del suo sistema filosofico.
Giuseppina Di Luna
Bibliografia
Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, ed. Adelphi, Milano 1999.