Jacques Rigaut, suicida per vocazione

La morte e la fine

Uomo e (sua) morte, per citare Epicuro, sono destinati a scrutarsi da lontano, persino privi del breve dialogo dove la seconda impone la propria presenza sostituendo, di fatto, il primo con un involucro cadaverico per cui il divenire non è più “crescita”, bensì deterioramento oggettuale. Se, come pure sostiene Camus ne “Il mito di Sisifo”, quello del suicidio è il solo problema filosofico “veramente serio”, non senza vivo interesse, si può tentare una presentazione di Jacques Rigaut. Non si occupa, forse, la materia filosofica di quello scarto tra vita pratica e vita intellettiva?

Più adeguatamente di qualunque altra condotta, quella suicida denuncia, sedimentata sotto la pratica e i precetti della morale, quanta vita (limpida, trasparente) possa desiderare per sé un individuo. Non la morte, sublimazione del respiro vitale verso quell’ultimo, precipuo, soffio, bensì l’azione più semplice di chi si beffa della fine.

Provate, se potete, a fermare un uomo che viaggia con il suo suicidio all’occhiello.

Il fine e il suicidio

Il suicida permette nel gesto quel dialogo con la Morte altrimenti invalidato, nei preparativi dimostra la propria voce a dispetto della tradizione che crudelmente brama la vita. Come dire: la morte del suicida non è la stessa morte che presenta la natura. Egli deve preparare la propria dipartita, ordinarla. Pure nel sedicente lampo di follia che precede l’esplosione di un colpo oppure la caduta da una finestra è contemplata una pre-meditazione sul proprio stato.

Donde, la catena di gesti che il suicida percorre con convinzione: non è la morte, il fine, è piuttosto la vita come affermazione di sé. Una vocazione da rispettare, da indossare, come fiore, sull’occhiello della giacca e di cui fregiarsi in società; la morte è ormai affrancata dal discorso, è un accidente inevitabile tanto quanto nella vita comune. Che attributo possiede, allora, il suicidio? Nella pre-meditazione, in quella vocazione, la vita si afferma con quanto più coraggio è possibile a un uomo. Il grido del suicida è uno e uno solo: <<viva la vita!>>.

Jacques Rigaut, schegge di specchi e frammenti dell’Io

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Jacques Rigaut ritratto da Man Ray in “Un homme cruxifié”

In letteratura, meglio, tra uomini di lettere, il suicidio è materia di scrittura, l’argomento costitutivo del gesto, una di quelle azioni preparatorie dell’impresa suicida. “Dove collochereste Lord Patchogue? Qual è la sua parte, quale il suo ruolo?”. Con tale interrogativo sull’esistenza, che è la propria, Jacques Rigaut, dada e antidada, eterno suicida, giocatore e ubriacone presenta il Lord Patchogue dall’omonimo racconto, nella raccolta di testi scelti “Agenzia Generale del Suicidio”, edito in Italia da Le Nubi edizioni.

Tutta la sua persona, almeno quella che in grafia minuta può essere descritta con apparente lucidità, sembra tradire la smorfia della decadenza. Un autoritratto da parte di colui che “sul muro […], in un ampio specchio, […] scorge la sua immagine” e si lancia “fronte in avanti”, per attraversarlo, raggiungendo l’altro sé stesso che pare abitare l’universo speculare dell’identità. Fuori dallo specchio, Patchogue e Rigaut giacciono feriti dalle schegge che ormai riflettono solo porzioni infinitesimali e assolute del corpo. Nello slancio, che sempre più somiglia  a una mimesi del movimento, sembra celarsi la parodia dello slancio vitale, il tentativo di superare la vita attraverso la rappresentazione, una contesa tra l’individuo e la sua altra identità diventatagli ormai estranea. Se, secondo Lacan, lo specchio è ciò che permette al bambino di osservarsi non più frammentato bensì integro, esso è, per Rigaut, la terribile dimostrazione dell’abisso tra integrità corporea e frammentazione psichica.

Identità e noia

Oltre la follia, se essa non è che l’inverso della sanità (“In manicomio, è chiaro, c’è un folle, uno solo”, scrive Rigaut, “il direttore”), piuttosto prossimo alla dispersione dell’Io dentro la mediocrità della vita pratica. Quei dada così rivoluzionari a cui il giovane si avvicina e con cui partecipa al cortometraggio Entr’acte di Renè Claire insieme, tra gli altri, a Duchamp, Picabia e Ray, il quale si diverte a ritrarlo a petto nudo, in croce, sagace Gesù Cristo; quegli studi di legge che dovrebbero servirgli per diventare un buon figlio; quell’amore americano che lo prende in un turbine di percezioni tradite; persino la morte stessa che sublimi i tentativi disattesi del suicidio, si disperdono dentro la noia.

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Paul Chadourne, Tristan Tzara, Philippe Soupault, Serge Charchoune, Man Ray (in foto), Paul Eluard, Jacques Rigaut, Mick Soupault, Georges Ribemond-Dessaignes

Tale il luogo dove sorge l’”Agenzia Generale del Suicidio”, che, previo pagamento in danaro, permette una morte “suicida” dove alcuna accidia o barlume di speranza sia di disturbo. È necessario, allora, rincorrere un brivido: “Testa o croce”, scrive il giovane “Non calcolo, gioco. È più saggio”, ma la noia, quel sentimento attraverso cui sembra riconoscersi l’uomo stesso, è il vero specchio, adesso imperituro, che permette di osservare nell’interezza la propria esistenza, quel “me e me, me me me” mai integro, mai frammentato. Cos’è, allora, l’azione suicida? In una riflessione edita da Gallimard nella raccolta integrale “Écrits”, Rigaut scrive: “Le fantasie che aiutano J.R. a vivere: […] -Suicidio.”.

Antonio Iannone

Bibliografia

A. Camus, Il mito di Sisifo, trad. A. Borrelli, Bompiani, 2013
J. Rigaut, Écrits, Gallimard, 1970; id, Agenzia generale del suicidio, trad. P. Zanini, Le Nubi Edizioni, Roma 2005