In seguito all’armistizio del ’43, molti soldati italiani vennero catturati o uccisi dai tedeschi. Anche lo scrittore Guareschi finì in un lager.
Giovannino Guareschi, il padre di Peppone e don Camillo, fu uno dei seicentomila IMI (Internati Militari Italiani), imprigionati nei lager tedeschi dal ’43 fino alla fine della guerra. Di quella terribile esperienza, lo scrittore ci ha lasciato un diario del quale, per una curiosa vicenda editoriale, abbiamo due versioni. In questi due terribili anni di prigionia, Giovannino annotò tutto quello che accadeva e ciò che pensava. Nacque così il Grande diario che consta di più di cinquecento pagine di annotazioni giorno per giorno, con suddivisione per mesi. Alla fine, però, Guareschi decise di non pubblicarlo, ricavandone un diario più piccolo uscito col titolo di Diario clandestino.
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Il recupero del Grande diario di Guareschi
In effetti quel diario, in un’Italia che usciva dalla guerra civile, poteva ravvivare vecchi rancori. Per fortuna esso non è però andato perduto grazie all’opera dei figli dello scrittore, Alberto e Carlotta, che lo hanno recuperato. Infatti Guareschi, come spiegano nella prefazione del Grande diario, aveva visto troppa miseria e troppe guerre per bruciare così tanta buona carta. Così la riutilizzò per le sue brutte e i suoi disegni, rendendone però possibile la pubblicazione postuma.
Il dramma degli IMI
E fu così che di uno stesso capolavoro abbiamo due edizioni definitive dell’autore. Ma in entrambi i diari traspare il dramma di quei soldati italiani che soffrirono la fame e le malattie pur di non aderire alla Repubblica sociale e per restare fedeli al loro Paese e al Re. Una resistenza eroica, come nota Giampaolo Pansa nella prefazione del Grande Diario, misconosciuta fino a pochi anni fa. I soldati italiani furono abbandonati da tutti, anche dal Paese per cui avevano combattuto e sofferto. La Germania infatti negava loro lo status di prigionieri di guerra considerandoli degli internati militari, quindi senza le tutele della Convenzione di Ginevra. Anche la Croce Rossa Internazionale che forniva assistenza a tutti i prigionieri, abbandonò gli italiani al loro destino obbligandoli a sopravvivere del misero rancio del lager e dei pacchi che arrivavano – quando possibile – dalle famiglie.
La vita del lager
Guareschi offre un’esauriente descrizione della vita del campo, con il suo mercato nero e i suoi speculatori, le spie, le lettere da casa, le liti e le conversazioni, le notizie dal fronte provenienti dalle radio clandestine che riuscivano a nascondere (Giovannino chiamava Caterina quella della sua baracca). Inoltre, nel cuore dell’inciviltà nazista, non morivano l’arte e la cultura, con cicli di conferenze, lezioni, concerti e persino un teatro guidato dallo stesso Guareschi: «Non vivemmo come bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo»
La Resistenza di un umorista
La prigionia non fu certo vissuta da Guareschi con spirito di rassegnazione:
Io non mi considero prigioniero, io mi considero combattente…sono un combattente senz’armi, e senz’armi combatto…Io servo la patria facendo la guardia alla mia dignità di italiano.
Guareschi fa riferimento alle continue sollecitazioni di adesione alla Repubblica e di collaborazione con la Germania che portavano a repentini miglioramenti di vitto e alloggio per gli optanti. Era una vera e propria guerra psicologica, fatta di vessazioni e umiliazioni. L’autore scrive di essere partito con 89 kg di peso e di essere tornato con 54: «Ho fame! Che il buon Dio mi aiuti. Ma creperò piuttosto di cedere». A tutto questo si aggiungeva una grande determinazione, soprattutto per il desiderio di rivedere la famiglia e conoscere la figlia Carlotta. Guareschi dovette fare affidamento alla «testardaggine di emiliano della Bassa»:
e così strinsi i denti e dissi: Non muoio neanche se mi ammazzano! E non morii. Probabilmente non morii perché non mi ammazzarono: il fatto è che non morii.
Un umorista nel lager
Nonostante la tragicità, anche nel lager Guareschi restava un umorista. Nella lettera al figlio, che si trova nel Grande diario, Guareschi si difende preventivamente dall’accusa di voler fare dell’umorismo ad ogni costo. Per lui in quella situazione tragica e paradossale, l’ironia era insita nelle vicende stesse che viveva. Per questo i diari ci mostrano la «prigionia vista da un umorista», e se «non va bene, vuol dire che la prossima prigionia farò meglio». Infine, il grande umorista uscì vittorioso da lager, perché
io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso.
Ettore Barra