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La scrittura inedita
È con una contestazione di Sartre che si presenta la raccolta di saggi “L’arte del romanzo” per mano (e voce) di Milan Kundera, edita da Adelphi, la quale annovera in catalogo l’intera opera dello scrittore ceco. “Rileggo il breve saggio di Sartre Qu’est-ce qu’écrire?”, annota Kundera, “Non una volta usa le parole romanzo, romanziere”. Fuori dall’idea e finanche dalla scrittura, il romanzo sopravvive a chi ne sia autore. Questa forma inedita della scrittura mescola brandelli di idee insieme con riflessioni, dialoghi, descrizioni di vite in una realtà ormai differente dalla somma delle parti; ecco che non delle particolari costruzioni di cui è composto, bensì da ciò che le tiene insieme, il romanzo conquista la propria identità a dispetto degli altri generi.
A monte, la scrittura dell’autore che decide, riga per riga, di abbandonare un punto di sé per generarne un secondo, sacrificio compiuto contro una tradizione che desidera preservare la vita: a ogni riga si muore, ci si annulla dietro l’imponente Moloch che la parola (ormai osservata come un unicum) edifica a partire dall’esperienza. “Scrivere vuol dire rompere il legame che unisce la vita a me stesso”, osserva il filosofo Maurice Blanchot tra le pagine de “Lo spazio letterario”, pure, rincara, “rompere il rapporto che mi fa parlare a <<te>>.” La scrittura annichilisce il dialogo, persino in quel feticcio del monologo interiore di cui Joyce si serve, attraverso L’Ulisse prima e Finnegans Wake poi, per una decostruzione sistematica dell’opera occidentale.
Milan Kundera contro la vita
In tale silenzio, a chi parla, lo scritto? Se scrivere è quell’abbandonarsi dell’autore all’erranza della parola, allora l’opera è “ciò che resta”, il prodotto di un’operazione che lavora non contro l’identità bensì per il suo mutamento dietro uno spazio (quello “letterario”, appunto, prima che “romanzesco”), dove sacrificarsi per un’esistenza inedita. Oltre la scrittura, il genere cui essa si conforma, pure suo malgrado.
Ciò che Kundera sperimenta, allora è non una “teoria della letteratura”, né una “scienza del libro” così come azzardata da Roberto Calasso in “L’impronta dell’editore”, piuttosto una “filosofia del romanzo”, dove l’opera adombri l’autore e gli permetta meno biografia di quanto egli stesso e la critica non desiderino. Abbandonare le vicissitudini cui qualsiasi esistenza umana incorre a favore di un romanzo che sopravviva alla miseria delle sensazioni particolari; un desiderio di “oltrepassare i limiti temporali della vita individuale” per scorgere l’immortalità dell’avvenire.
“La vita è altrove”
Il più immediato esempio di una biografia che tende a far esegesi dell’opera è quella che ha per protagonista la figura di Kafka: quante volte, nonostante il punto fermo, si è tentato di completare in -afka il vuoto che accompagna la lettera K.? “Che cosa fa di K. un essere unico? Non il suo aspetto fisico […], né la sua biografia”, perché allora quella dell’autore dovrebbe presentarsi come l’eccedenza di una mancata quanto volontaria descrizione del personaggio? Con troppa leggerezza si attribuisce alla gobba di Leopardi la causa del suo mal di vivere.
Così non solo dell’autore non si deve conoscere alcunché quando ci si avvicina alla sua opera, ma la stessa possibilità di conoscere la verità sulla sua esistenza attraverso quell’opera dev’essere invalidata dall’ermetismo descrittivo del romanzo. “I biografi di un romanziere disfatto quindi ciò che egli ha fatto, rifanno ciò che egli ha disfatto” in un’arte insincera e pericolosa. Fosse nient’altro che un dialogo tra autore e opera, al pari della scrittura, il romanzo potrebbe preservare la propria completezza, tuttavia il luogo dell’alterità, che pure in maniera parziale ne afferma la natura, lo costringe a un tradimento di essa.
Tutte le grandi opere […] hanno in sé una parte di non compiuto.
Figure dell’alterità
Il lettore, l’editore, il traduttore, tre figure mai citate direttamente nel corso dei saggi, eppure interlocutrici continue del discorso sul romanzo. L’altro, che immette l’opera nel mercato del libro, lo traduce per un’altra lingua, gli dona una veste grafica, attenta con ogni mezzo a quell’integrità. Eppure un romanzo non può abbandonare la sua costituzione stilistica, la musica di cui è formato, le parti che lo compongono.
Se Kundera tanto sagacemente racconta delle proprie disavventure con i traduttori non è per affermare la propria identità di romanziere, bensì perché possiede il dovere di tutelare l’opera contro le brutture del mondo esterno; e non per quella certa ipertrofia dell’Io che spesso afferra gli scrittori, egli avvicina (pericolosamente?) i suoi romanzi a quelli di Kafka, Musil e Broch, piuttosto per una teoria conscia del fare romanzesco, come fossero il più sincero esempio tra quelli possibili, la più vicina esperienza pratica della teoria. Uno studio della propria opera, dunque, una ricerca filologica di temi, parole, numeri. Che sia questo legame a tenere insieme il romanzo e l’autore?
Antonio Iannone
Bibliografia
M. BLANCHOT, Lo spazio letterario, trad. it di G. Zanobetti – G. Fofi, Einaudi.
R. CALASSO, L’impronta dell’editore, Adelphi.
J. JOYCE, Ulisse, trad. it. G. De Angelis, Mondandori; di ID, Finnegans Wake, stanno tentando una traduzione italiana E. Terrinoni – F. Pedone, Mondadori, di cui sono stati pubblicati solo i primi due capitoli del terzo volume.
M. KUNDERA, L’arte del romanzo, trad. it di E. Marchi, Adelphi.