Sbatti il mostro in prima pagina è stato diretto da Marco Bellocchio e sceneggiato da Sergio Donati con Goffredo Fofi. Il film del 1972, come altri di Bellochio (I pugni in tasca, La Cina è vicina), fa parte di quel gruppo di opere che vengono raggruppate nel cosiddetto “cinema politico”.
Pellicole del calibro di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e Todo Modo (1975) di Elio Petri, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971) di Damiano Damiani e Cadaveri Eccellenti (1976) di Francesco Rosi sono solo le principali rappresentanti di questo particolare genere.
Il periodo rappresentato nel film di Bellocchio, quello dei primi anni Settanta, è contraddistinto dalla disgregazione e disillusione verso l’idea di Stato.
Nell’immaginario dei registi sopracitati l’istituzione è divenuta luogo di intrighi e forze oscure, che tramano contro gli stessi cittadini. La fine delle certezze e della fede nei partiti politici organizzati e lo sguardo puntato verso le forze eversive extraparlamentari, fanno di questo cinema un documento storico di prim’ordine per comprendere il periodo degli “anni di Piombo”.
Sbatti il mostro in prima pagina di Bellocchio: l’informazione al servizio della politica
Le immagini documentarie dell’incipit ci immettono in medias res, facendoci respirare il clima politico di quegli anni. Immediatamente, un giovane Ignazio La Russa, appartenente allora al “Fronte della gioventù” del “Movimento Sociale Italiano“, arringa la cosiddetta “Maggioranza silenziosa” contro il Comunismo. Sulla sponda opposta, tra scontri con la polizia e azioni di guerriglia urbana, si celebrano i funerali di Feltrinelli, sui quali era balenato il sospetto dell’omicidio di Stato.
Durante una di queste azioni viene presa di mira la redazione de “Il Giornale“, con lanci di moltov prontamente fotografati. L’orientamento del quotidiano viene reso subito palese, quando il direttore si lamenta dell’episodio presso il questore, il cui ufficio era sempre stato “difeso” negli articoli del giornale.
In seguito, con l’entrata in scena del caporedattore Bizanti, interpretato da Gian Maria Volonté, tale orientamento diviene ancor più manifesto. Questi, telefonando il proprietario del giornale, l’ingegner Montelli, candidato alle successive elezioni e finanziatore occulto degli squadristi, propone di ingrandire l’entità dell’accaduto, in modo da far, per una volta, “la parte delle vittime”. L’obiettivo di porre in cattiva luce gli avversari dei partiti della Sinistra e la volontà di insabbiare la scoperta dei finanziamenti di Montelli ai fascisti, conduce alla manipolazione dell’informazione.
I metodi di dis-informazione consistono nello spazio eccessivo riservato all’avvenimento e nella manipolazione delle parole.
In effetti, buona parte dell’opera, al di là della trama vera e propria, analizza i meccanismi di utilizzo delle parole da parte dei giornalisti che cercano di connotarle positivamente o negativamente a seconda delle esigenze particolari. È così che lo screzio di cinque manifestanti contro la sede del giornale diventa un “attentato alla democrazia” e al suo “più supremo valore: la libertà di stampa”. È così che i movimenti di protesta della Sinistra, anche se non violenti, vengono accostati ai fascisti, con l’etichetta di “estremisti”, “nichilisti”, “antidemocratici”, “nuovi demoni”, ecc.
Da osservatori a protagonisti
Tra le tante manipolazioni dell’informazione politica, ecco apparire un evento di cronaca: l’omicidio e la violenza sessuale subiti da una ragazza, Maria Grazia Martini.
Bizanti decide di affidare l’articolo al principiante Roveda, non prima di istruirlo sul tono che i lettori vogliono e sulle parole da usare. Così un articolo come “Disperato gesto di un disoccupato: si brucia vivo padre di cinque figli” diviene “Drammatico suicidio di un immigrato” o l’aggettivo “licenziato” viene corretto in “rimasto senza lavoro”.
La reazione fortemente emotiva dei lettori alla brutalità del fatto, l’insistenza del giornale sulla violenza sessuale e i riflettori puntati sempre di più sulle manovre di Montelli, guidano Bizanti a sfruttare la notizia di cronaca a favore del proprietario del quotidiano.
Lo scopo è di spostare l’attenzione sulla sponda opposta, incastrando Mario Boni, giovane attivista della Sinistra extraparlamentare e frequentatore della ragazza uccisa. Grazie alla testimonianza di una donna offesa e psicologicamente instabile, che Boni ha lasciato per Maria Grazia, Bizanti distorce la realtà dei fatti e incolpa ingiustamente in prima pagina il giovane attivista. Il colpevole viene praticamente fabbricato, nonostante l’opposizione di Roveda.
Il giornalista passa, in tal modo, dal ruolo di osservatore imparziale a quello di protagonista della lotta di classe, ponendo l’accento sulla sua posizione di gatekeeper.
E così al fiume di gente per i funerali di Feltrinelli ad inizio film, si contrappone in chiusura il funerale borghese di Maria Grazia Martini, simboleggiato da un fiume che trasposta rifiuti.
Sebbene sia stato criticato, in quanto eccessivamente schierato, il film di Bellocchio risulta un ottima rappresentazione del potere dei media e delle tecniche di manipolazione dell’informazione in generale.
Giuseppe Mele