Chissà quante volte abbiamo usato la parola “sosia” senza conoscerne la sua origine. Essa è autenticamente latina, e risale fin alla letteratura della res publica, e più precisamente a una commedia plautina, l’“Amphitruo“. L’“Amphitruo” fu messo in scena probabilmente nel 206 a.C., e prende il nome dal suo protagonista, Anfitrione, padre “adottivo” di Eracle. Plauto stesso, nel prologo al dramma, lo definisce una tragicommedia, cioè un dramma a metà tra tragedia e commedia.
La trama dell’“Amphitruo”
Il protagonista, Anfitrione, è sposato con Alcmena, una donna bellissima, di cui si innamora (ovviamente) Giove. Il dio dall’alto dell’Olimpo desidera ardentemente la donna, ed escogita un piano per possederla: Anfitrione, il marito, e Sosia, suo servo, partiranno per la guerra, e sarà allora che Giove dovrà approfittare dell’assenza del coniuge.
Prese le sembianze di Anfitrione, Giove costringe anche il povero Mercurio a “diventare” Sosia, e i due si recano in casa di Alcmena. La donna, sorpresa dal ritorno anticipato del marito, viene rassicurata dai due, e così giace serenamente con Giove sotto le sembianze di Anfitrione.
Il vero Anfitrione, però, sta tornando solo ora dalla guerra, e ha mandato il suo fedele servo Sosia ad annunciare la vittoria alla moglie. Il vero Sosia giunge a corte e si scontra con il finto Sosia, Mercurio, che solo per il suo status divino riesce ad avere la meglio. Anfitrione, giunto poco dopo, si sorprende della freddezza della moglie, che sostiene di essere stata con lui quella notte.
L’eroe allora l’accusa di adulterio, e la lite scoppia violenta tra i due. Giove, messo alle strette, scende di nuovo sulla terra, e rivela il suo segreto, sciogliendo l’equivoco: è stato lui ad assumere le sembianze di Anfitrione per il desiderio di Alcmena. L’eroe non può che acconsentire al “tradimento” di Alcmena con il padre degli dei, e afferma pazientemente che in fondo dividerla col grande dio può essere sopportato.
I gemelli Eracle e Ificle
Alcmena, nel frattempo, è rimasta incinta… sia di Anfitrione che di Giove! Nel suo grembo, così, crescono due gemelli: il primo, divino, è Eracle, figlio di Zeus; il secondo è Ificle, umano, figlio di Anfitrione.
La commedia si chiude con il parto di Alcmena e la prima impresa di Eracle che, odiato da Era in quanto frutto dell’ennesimo adulterio di Giove, viene assalito da serpenti, prontamente strozzati dalle sue piccole ma già forti mani.
L’espediente della somiglianza
Come si può evincere facilmente dalla trama, la commedia è tutta giocata sugli equivoci e sulle somiglianze tra i personaggi. Il termine “sosia” viene proprio da qui, dal servo di Anfitrione prontamente “replicato” da Mercurio, che diviene appunto un suo sosia. Ma come veniva resa questa somiglianza sulla scena? Alcuni critici credono che essa fosse realizzata attraverso l’uso di maschere: Giove e Anfitrione, Mercurio e Sosia indossavano le stesse maschere, “simulando” così la perfetta uguaglianza.
Il problema, tuttavia, persiste, in quanto sembra che l’uso di maschere fosse quasi esclusivo della commedia greca, e piuttosto sconosciuto a quella latina, almeno alle origini. Il teatro plautino, infatti, come evinciamo anche semplicemente dalle battute, era abbastanza vivace, dunque basato sulla mimica facciale piuttosto che sull’uso di maschere.
In ogni caso, gli dei e i mortali, pur indossando maschere uguali o atteggiandosi allo stesso modo, erano ben distinguibili: nel prologo, infatti, si specifica che Giove indosserà una treccia d’oro, mentre Mercurio sarà riconoscibile dalle sue famosissime ali.
Al di là delle interessanti informazioni che l’“Amphitruo” ci rivela sulla messa in scena del teatro latino, ciò che fa sorridere e riflettere maggiormente è come spesso anche le cose più “banali”, come un semplice sostantivo usato chissà quante volte, abbiano un’origine lontanissima, le cui radici affondano persino nel mondo latino. È anche questo il bello della conoscenza e della letteratura: la capacità di rendere unico quel che per noi è quotidiano.
Alessia Amante