Di quella filosofia che ha occupato l’intero novecento, l’esistenzialismo, si occupa il saggio di Sarah Bakewell “Al caffè degli esistenzialisti”.
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La filosofia dell’eppure
Qualcuno che desiderasse fare dello spirito potrebbe raccontare come l’esistenzialismo di Sartre sembrasse completamente plasmato sulla sua figura, scherzare insomma con la metafora d’una filosofia strabica. Se da un lato infatti essa osservava la gettatezza dell’individuo nel mondo, nondimeno dall’altra la affrontava; se con ammirazione s’interessava ad ognuna delle contingenze che l’esistenza incontrava dentro il proprio ambiente, di continuo sembrava immergerle in una ricerca metafisica dove quella stessa esistenza, contingente e caduca, fosse sublimata in un più autentico Essere. esistenzialismo esistenzialismo esistenzialismo esistenzialismo esistenzialismo esistenzialismo esistenzialismo
Dalle piccole feritoie dove come per caso s’infiltra la filosofia, si erano d’improvviso spalancate finestre e usci dietro cui la realtà si mostrava nella sua più nuda crudezza. Persino a seguito del Secondo Conflitto, quando la materia esistenzialista si affacciò al consumo fagocitante dell’America, non poteva che salvaguardare con ogni mezzo l’umanità.
Eppure parrebbe un cieco chi tacciasse di strabismo (si perdoni l’allegoria oftalmica) la filosofia dell’esistenza: se essa appare difatti così inquieta non è certo per cattiva coerenza dei suoi promotori, francesi che occupavano i tavolinetti dei caffè del novecento, che avevano letto Hegel come Husserl e avuto modo di dibattere con la psicoanalisi, piuttosto per una loro frammentazione, per così dire, individuale. Tanti erano gli esistenzialisti, difatti, quanti i parigini.
“Al caffè degli esistenzialisti”: rimando e segno
Di tale frammentazione racconta Sarah Bakewell nel fine saggio per Fazi Editore “Al caffè degli esistenzialisti”. In copertina tre figure i cui profili si confondono con quelli dell’ambiente e che, meglio, proprio a causa di quell’ambiente sono riconosciuti nella loro biografia.
È la pipa che rimanda a Sartre, il bavero del cappotto a Camus, l’acconciatura alla de Beauvoir, allo stesso modo per cui Heidegger, in “Essere e Tempo”, scrive che gli enti rimandano inesorabilmente a un ambiente: mai si osserverà un martello immerso in un’asettica stanza, ma sempre attraverso la sua utilizzabilità, esso rimanda difatti al martellare appagando il proprio essere in una fitta rete di relazioni progettuali.[1]
L’esistenzialismo si presenta dunque come una filosofia che osserva il mondo esterno, la cui angoscia si forma e dis-forma tra la musica e il rumore del mondo. Esso non la disturba, la afferma, piuttosto, ne riconosce il profilo: inscena una sorta di “stadio dello specchio”.
Il pensiero dal di dentro
Non v’è più alcuno straniero nel proprio ambiente, ma un “cittadino” che pur riconoscendolo angosciante e viscoso, convive con esso, a volte sospirando, in un conato di sopravvivenza.
Egli edifica i propri ostacoli, poiché lo sguardo gli si posa contro il caduco argine che affaccia sull’abisso della libertà. Cementificare dunque il terrapieno, generare una coscienza civile tale per cui il peso dell’intera esistenza sulle spalle di Sisifo produca una convivialità pratica tra gli individui. “Bisogna immaginare Sisifo felice”, scrive Camus a conclusione della suo “Mito”.
Trepidamente si scrutano gli oggetti in quella prospettiva cui Husserl aveva dato il nome di fenomenologia, l’osservazione pura degli elementi priva delle sovrastrutture del mondo metafisico. È ancora una volta Heidegger, Adamo della filosofia, a dare un motto riconoscibile al pensiero del proprio maestro: “alle cose stesse!”. L’analisi del mondo prova a purificarsi dalle fantasie di cui è stato oggetto, le combatte con l’arma dell’osservazione, le immette dunque in un ambiente.
Seduto al solito tavolinetto con gli occhi che voracemente desiderano appropriarsi dell’intero spazio circostante (e di non misera rilevanza si vestirà la nozione di sguardo nel suo pensiero), un’ambizione distruttiva anim, un giovinotto piccolo ma sicuro dal nome di Jean-Paul Sartre. In lui una filosofia dove l’uomo può faticosamente venir fuori dalla nausea e pericolosamente riappropriarsi di sé.
Esistenzialismo, esistenzialismi
Non dunque un pensiero sistematico i cui dogmi siano interamente esposti nell’opera d’un autore (come, ad esempio, in Hegel), l’esistenzialismo è una filosofia della comunità, abbraccia un esatto periodo storico e ne diviene descrizione esauriente. Per tale ragione nomi, aneddoti, finanche infiltrazioni storiche si moltiplicano tra le pagine del testo di Bakewell. Riesce il tono poco accademico a immiserire l’interesse verso la materia? No di certo, anzi, dimostra come proprio da uomini che danzavano il boogie-woogie (Merleau-Ponty) o distribuivano copie clandestine della propria rivista (Sartre e la de Beauvoir), si è generata quella filosofia della contingenza che nell’azione contempla la miglior fuga dal mondo e riappropriazione di esso.
Frammentaria? Certo, così frammentaria da avvicinare l’Heidegger nazista rettore a Friburgo, il Sartre stalinista del dopoguerra, la de Beauvoir dell’egemonia maschile sul genere sessuale e il felice borghese Merlau-Ponty. Tali differenze tuttavia, ed è la tesi che sottende al saggio divulgativo dell’autrice, non descrivono che un comune principio: “all’individuo stesso!”. E l’individuo, è noto, non soltanto dei propri sistemi si veste, ma di danza, contraddizioni, cocktail all’albicocca. Esistenza, dunque.
Antonio Iannone
[1]Sia d’esempio questo passo di “Essere e Tempo”: “[…] con questo utilizzabile che noi, appunto perciò, chiamiamo martello sussiste l’appagatività presso il martellare, col martellare sussiste l’appagatività presso il costruire, con il costruire sussiste l’appagatività presso il riparo contro le intemperie.”
Bibliografia:
S. Bakewell, Al caffè degli esistenzialisti. Libertà, Essere e Cocktail, Fazi Editore
A. Camus, Il mito di Sisifo, trad. di A. Borrelli, Bompiani
M. Heidegger, Essere e Tempo, a c. di P. Chiodi, Longanesi