Come entravano a Napoli i libri proibiti? In che modo si riusciva ad aggirare le restrizioni del mercato librario? Qual ruolo avevano Stato e Chiesa?
Una questione giurisdizionale
La Riforma cattolica del Concilio di Trento (1545-1563) portò all’istituzione della Congregazione dell’Indice, con il compito di gestire l’elenco dei libri proibiti. Il problema dei libri proibiti era molto sentito a Napoli dal ceto civile, perché la censura ecclesiastica diventava spesso causa di conflitti giurisdizionali. Ma qual era lo stato del mercato librario e dell’editoria nel Regno? E qual era la legislazione in materia? Nel volume Il sapere che brucia. Libri, censure e rapporti Stato-Chiesa nel Regno di Napoli fra ‘500 e ‘600 (Congedo Editore), Milena Sabato scrive:
…non fu mai formalmente concesso il regio exequatur alla bolla di Leone X del 1515, ai decreti tridentini sulla censura libraria ecclesiastica o all’indice romano, e dove non mancarono precise disposizioni vicereali in materia, fu, nel complesso l’autorità ecclesiastica ad avere paradossalmente il controllo editoriale e così le proibizioni pontificie ebbero normale corso (p. 43).
Quella dei secoli XVI e XVII fu quindi una legislazione «contraddittoria e ambigua», prodotto di «coincidenze» e allo stesso tempo di «divergenze di interessi tra lo Stato e la Chiesa» e che «finì col valere solo nei momenti di maggiore tensione» (pp. 124-125).
Proibizioni statali ed ecclesiastiche: una dura battaglia
Gli studi più recenti hanno messo in evidenza anche il ruolo degli Stati nelle proibizioni librarie. Le autorità politiche, almeno inizialmente, temevano gli elementi potenzialmente sovversivi delle dottrine eterodosse e quindi tendevano a schierarsi al fianco della Chiesa nella loro repressione. Veniva inoltre esercitata una vera e propria censura “civile” contro tutte quelle opere dai contenuti considerati lesivi degli interessi statali (come le opere curialiste).
Quella contro i libri proibiti, però, si rivelò essere una battaglia difficile per lo Stato come per la Chiesa, per numerosi motivi. Infatti i libri penetravano facilmente nel Regno sia via mare sia via terra e, nell’impossibilità di esercitare un controllo capillare, era difficile cogliere sul fatto i colpevoli. Non a caso, come rilevato da Pasquale Lopez in Inquisizione stampa e censura nel Regno di Napoli tra ‘500 e ‘600 (Edizioni del Delfino, 1974), quasi tutti i procedimenti traevano origine da denunce o da segnalazioni anonime (pp. 66-67).
Libri proibiti: un mercato incontrastabile
Il susseguirsi dei decreti è un indizio significativo della difficoltà del potere censorio nel raggiungimento di una vittoria effettiva. Infatti non mancavano mai librai disposti a rischiare pur di trarre profitto da un volume reso più prezioso dalla proibizione. Infatti, l’acquisto di un libro “mal gradito” non era un fatto “inconsueto” e la soddisfazione di certi “appetiti culturali” era più forte della paura. Quindi il commercio di libri proibiti, pur restando difficile, si rilevò alla fine incontrastabile. Per gli uomini di cultura l’accesso alle pubblicazioni “perniciose” era reso più facile dalla relativa felicità con cui potevano ottenere dei permessi e dall’amicizia con intellettuali che potevano spedirle loro dall’estero.
Tuttavia le proibizioni sortirono senza dubbio un effetto raffrenante per la cultura che divenne sempre più difficile da accettare per autori del calibro di Valletta, di Giannone e di Grimaldi. La censura ecclesiastica risultava loro ancora più insopportabile per la complicità di quello Stato che si sforzavano di difendere.
Sembra ormai abbondata la tesi classica che vedeva nella censura la causa del mancato sviluppo dell’editoria meridionale. La normativa ambigua e la mancanza di un unico organismo deputato al controllo furono solo alcuni dei fattori che consentirono a tipografi e librai l’apertura di “spiragli di libertà”. Infatti, l’importazione clandestina di libri era favorita anche dai bassi costi di ingresso delle merci e dalla tolleranza dei funzionari della Dogana. Solo la paura della Rivoluzione francese riuscì in seguito ad imporre maggiori restrizioni. Attualmente si tende, quindi, ad attribuire a fattori strutturali la debolezza «produttiva e distributiva» (Milena Sabato) del Regno, quali il costo della carta e la mancanza di fonderie che costringevano all’importazione dei caratteri.
Ettore Barra