Studiosi o appassionati, tutti sono abituati a pensare immediatamente all’Iliade quando si nomina la guerra di Troia. Nonostante la monumentalità del poema omerico, il mondo tragico non mancò di ritornare sulla saga troiana, non soltanto per rappresentarla in scena per la prima volta, ma anche per guardarla da un’altra prospettiva. Euripide, campione dell’ultima tragedia di stampo “psicologico”, creatore di trame in cui la donna e il suo universo sono perennemente al centro, diede la propria lettura della guerra di Troia (e della guerra in generale) nel dramma Le Troiane.
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Le Troiane dopo Omero
La guerra di Troia è finita, come l’Iliade manca di raccontare. E no, non è finita con una vittoria, come siamo abituati a pensare. La prospettiva ellenocentrica porta tutti a leggere la saga troiana come la storia di una vittoria militare: i Greci, con l’espediente del cavallo, espugnano Troia e ritornano a casa vincitori.
Ma la guerra non è fatta solo di vincitori, ci sono anche gli sconfitti. I poemi omerici (tra i due di più l’Odissea) accennano solo velatamente alla distruzione che la guerra ha portato a Troia. Non per questo, però, dobbiamo incolpare Omero di insensibilità: i suoi poemi sono, secondo una definizione riuscitissima, un’enciclopedia tribale, il testo laico del mondo greco, ed è naturale e assolutamente comprensibile che la prospettiva sia quella dei vincitori Achei.
La letteratura, tuttavia, fa anche molti passi in avanti, ed entra continuamente in contatto col suo passato, con cui prima o poi deve fare i conti. Riprendere la saga troiana, quella dell’immortale Omero, non era una scelta facile per un tragediografo, soprattutto se, come Euripide, si decideva di ribaltarne il punto di vista. La guerra non è soltanto quella dei vincitori, ma anche degli sconfitti. La guerra non è solo fatta dagli uomini, ma è anche patita dalle donne.
Il dramma delle donne troiane
Chi meglio delle donne, vedove, schiave, concubine, senza patria, senza città, senza figli può rappresentare il dramma della guerra? Euripide lo sa bene, e sa anche quale potenza l’universo femminile possa scatenare in scena. La sua fu una vera e propria rivoluzione: le donne, rappresentate sempre mute (perché parlare non conveniva al loro status), stavolta prendono voce, e urlano straziate tutto il loro dolore.
La guerra è Andromaca, che ha perso Ettore e ha visto, a inizio tragedia, suo figlio Astianatte, il Futuro, scaraventato giù dalle mura di Troia. La guerra è Ecuba, che ha visto la sua città distrutta con un inganno. La guerra è Cassandra, data in sorte come concubina ad Agamennone, come fosse un oggetto, e destinata (secondo la profezia che ella stessa scorge) alla morte per mano di Clitennestra solo perché amante del marito.
La guerra prima, la guerra ora
Euripide sa che chi patisce maggiormente la guerra sono le donne, già indifese in pace, ma costrette a sopportare il dolore e la distruzione soprattutto lungo un conflitto. E lo sa bene perché mette in scena questa tragedia nel 415 a.C., durante la Guerra del Peloponneso, che stava distruggendo non solo il potere di Atene, ma anche moltissime vite.
Solo un anno prima Atene aveva minacciato con le armi l’isola di Melo, intimando ai suoi cittadini di aderire alla lega delio-attica, l’organo di potere della città. Come riportano le immortali pagine di Tucidide, i cittadini di Melo si erano ribellati a questa costrizione, rivendicando il proprio diritto di scelta. Gli Ateniesi, però, avevano una concezione molto particolare di “scelta”: non si può scegliere davanti al più forte, ma solo sottomettersi. Al rifiuto di Melo, Atene rispose con la violenza: tutti gli uomini furono uccisi, e le donne e i bambini furono fatti schiavi.
Euripide interpreta il terrificante presente attraverso la lezione del passato: quelle donne, le donne di Melo, sono Ecuba, Andromaca, Cassandra, costrette a pagare il fio di una colpa che non hanno, costrette, da donne, a reggere sulle spalle il dolore del mondo. Le donne pagano il fio della guerra perché sono l’universo opposto alla guerra: madri e mogli, portano in sé il valore dell’amore e della famiglia, ciò che la guerra per primi distrugge. Le donne pagano il fio della guerra perché, pur non partecipandovi, subiscono la pena peggiore: restare sole.
Il ribaltamento di prospettiva
Eppure Euripide, nonostante lo sdegno provato, lancia un messaggio quasi provocatorio: chi è sconfitto sul campo, è vincitore moralmente. Le Troiane, infatti, non sono una tragedia della sterile autocommiserazione, ma aprono la strada ad una soluzione, seppur amara. Di fronte alla totale distruzione, c’è qualcosa che nessuno deve mai lasciarsi portare via: la dignità. Ecuba, Andromaca, Cassandra hanno perso tutto, la loro città, la libertà, i propri figli e mariti, ma non si lasciano mai schiacciare dalla disperazione. Ognuna, a modo proprio, resiste alla tentazione di abbandonarsi al dolore e lasciarsi vincere.
Si può tentare di sopravvivere anche ricordando di chi è la vera colpa: gli Achei, i vincitori sul campo, sono gli sconfitti sul piano etico e umano. Avranno pur portato bottino a casa, ma hanno provocato solo distruzione. Le Troiane, così, stringono un patto silenzioso: anche se ognuna dovrà servire nella casa di chi ha ucciso i propri congiunti, esse non perderanno mai la dignità e il ricordo. Ricordare ciò che è successo, ricordare ciò che si era, è un dovere di fronte al dolore, ed è l’unico modo per sopravvivervi.
La voce del teatro
Uomo ateniese in mezzo ad ateniesi imperialisti e forieri di morte, Euripide ha il coraggio di mettere in scena la vera guerra, quella delle donne. È incredibile pensare che un uomo del V sec. a.C., vissuto in una civiltà patriarcale, abbia lasciato la voce al mondo femminile. Ma il teatro, secondo la concezione aristotelica, serve proprio a questo, alla catarsi e alla purificazione dagli umori. Ed Euripide l’aveva perfettamente capito, quando scrisse per il coro questi versi:
“Come pesa la carne mia stanca!
Quale spasimo lacera il cuore!
Ma tacere è peggio del male:
per chi soffre, è grande sollievo
con il canto lenire il dolore.”
Alessia Amante