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Infanzia e progetto
Dell’infanzia scrivono soltanto mani adulte nel tentativo di ricercare il germe del progresso. Il bambino è un idolo progettuale, osservato come il seme che nessun altro albero sarebbe riuscito a produrre, eccetto quello che si osserva ormai compiuto. La filosofia della storia di chi si indaghi nell’infanzia è sempre al pari di quella proposta da Walter Benjamin nelle “Tesi” e che trova configurazione grafica nell’Angelo di Paul Klee: essa è l’ambiente del presente, l’età adulta, ma getta il proprio sguardo alle macerie del passato, lasciando nascere da esse il barlume del successivo splendore.
L’avvento della psicoanalisi freudiana ha inoltre nascosto nel silenzio e nella menzogna dell’età infantile il fossile di cui il terapeuta deve farsi archeologico, decodificando tracce e incisioni. Nell’infanzia pare dunque abitare la verità.
Diario del lettore
Al pari d’un evento storico, si attua una genealogia di sé stessi, aggrappandosi spesso a un avvenimento che appunti sul petto l’identità. È di tal forma l’analisi che Jean Paul Sartre propone in “Santo Genet: commediante e martire” sulla figura di Jean Genet, l’anarchico autore del “Diario di un ladro”, legandone l’esistenza a un solo, preciso “istante fatale” in cui il bambino decide di essere “quel che era o […] ciò che si è deciso dentro di lui”. Da adulto, sarebbe stato il ladro che già “dentro di lui” premeva per derubare la rilevanza degli altri attributi (l’altezza, il colore dei capelli, la nazionalità).
Tale l’analisi che lo stesso Sartre presenta sulla propria infanzia nel volume “Le parole”, edito da Gallimard nello stesso anno, il 1964, in cui il filosofo rifiuta il premio Nobel per la letteratura. Di sé, Sartre indaga i primi vagiti di grandezza, scopre i battiti nel loro nascondiglio e chiede loro lumi su un passato che, profetico, già portava i segni della ragione. Due direttrici differenti affiorano nel saggio sartriano, in Italia per Il Saggiatore con la traduzione di Luigi de Nardis: leggere e scrivere.
Leggere e scrivere
Così mescolate le due materie si distinguono nella riflessione del filosofo cinquantenne e profilano una scala di valori letterari che sin da fanciullo bisogna imparare a rispettare. Prima di tutto nascere, venire al mondo, farsi carico della propria presenza. Il povero bambino, cui i boccoli mascherano lo strabismo, non fa che essere vezzeggiato dalla madre, sua madre, la quale gli permette il gioco dell’affetto materno.
Di qui la finzione, la menzogna del dirsi figlio che l’adulto riscopre nell’infanzia: “fingo d’essere in pericolo per accrescere la mia gloria”, appunta. Il piccolo è un maestro di virtù menzognera, dove i bambini giocano tra loro ai soldati o agli indiani, lui impersona il ruolo del Santo. Si può dire che abbia vissuto un’infanzia felice? Si può certo sostenere che per la madre sembrò tale. Soltanto un’ombra, leggera, disturba la recita in quel piccolo idillio: l’ombra dei libri.
Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la terminerò: tra i libri.
Il libro appare come l’oggetto che totalizza lo sguardo del fanciullo, lo àncora alla materialità degli enti, i quali alla letteratura concedono la propria forma. Le parole sono già lì: semplicemente attendono. Così i libri si fanno materia di possesso: di essi il piccolo può dire: “Non sapevo ancora leggere, ma ero abbastanza snob da esigere di possedere libri miei”. In quel mio il bambino impone la propria figura angelica, lavora per una personalità sino ad allora sconosciuta. Quegli oggetti, i libri, si aprono come scrigni, rilucendo dei propri tesori.
Una bambina perbene
Di simile candore angelico l’infanzia di cui racconta in “Memorie di una ragazza perbene” (Einaudi, traduzione di Bruno Fonzi), primo dei quattro volumi autobiografici, Simone de Beauvoir, fine intellettuale e di Sartre compagna, seppur fuori dalle consuetudini. Alla piccola Simone il mondo appare come una mandorla da assaporare, un oggetto solido la cui esistenza prende forma nella percezione del gusto.
La sua è una discesa verso gli Inferi della discussione filosofica. Vezzeggiata anch’ella e costretta alla virtù femminea del cattolicesimo, lavora per mutarsi in una “brava bambina”. Tutt’intorno è Dio, ma è un attimo per cui l’ennesimo “istante fatale” faccia immobile il soffio divino.
Dio è un sentimento che non sa affievolirsi, abita i luoghi dell’immanenza. Nell’opera di De Beauvoir come in quella di Sartre è descritto l’abbandono di Dio con le parole dell’istante, ancor prima che la filosofia possa rappresentare un’eretica messa in discussione del candore sacro.
La terra roteava in uno spazio che nessuno sguardo penetrava, e perduta sulla sua superficie immensa, in mezzo all’etere cieco, io ero sola. Sola!
Il dialogo è invece scandalo, la filosofia si presenta al pari di un peccato: essa opera nello spazio dell’indipendenza e della proprietà. Anche De Beauvoir, difatti, come già Sartre, aspira alla proprietà di libri, compiti, mansioni. È, quella della filosofia, l’unica virtù cui anelano gli adulti adagiati in quei corpi fanciulleschi; la pienezza più perfetta dell’essere che pone le contraddizioni nel movimento del dialogo. Si cresce.
Antonio Iannone
Bibliografia
S. DE BEAUVOIR, Memorie di una ragazza perbene, trad. it. B. Fonzi, Einaudi.
W. BENJAMIN, Angelus Novus, a c. di R. Solmi, Einaudi.
J.-P. SARTRE, Santo Genet: commediante e martire, trad. it C. Pavolini, Il Saggiatore.
J.-P. SARTRE, Le parole, trad. it. L. de Nardis, Il Saggiatore.