Il giovane Tzara: Dada o non Dada?

Questa sera al Cabaret Voltaire: il movimento dada

1916. Zurigo, Spiegelgasse n. 1, Cabaret Voltaire. All’interno, un gruppo d’artisti diverte gli spettatori (tra cui un certo Lenin, che al n. 14 della medesima strada sta vergando il celebre L’Imperialismo come fase suprema del capitalismo) con letture pubbliche, balletti, recitazioni paradossali. Di tanto in tanto qualcuno pronuncia un singolare fonèma, quasi un’onomatopea, la duplicazione d’una sillaba: “Dada”. “Cosa significherà mai?”, è il brusio delle voci soffiato nelle orecchie degli accompagnatori.

Chi avesse aperto un buon dizionario di francese ne avrebbe letto traduzione in “cavalluccio a dondolo”. A cosa rimanderà, quel giochino per bambini che pare un balbettìo, tanto da esser divenuto l’emblema del movimento? A una molto particolare forma di decisione: la casualità. “La parola Dada fu casualmente scoperta da Ball e da me in un dizionario tedesco-francese”, racconta Richard Huelsenbeck citando il collega Hugo Ball, che del Cabaret Voltaire e del suo agire anarchico fu artefice pratico e fine agitatore, una dinamo il cui spasmodico affanno desiderava sommuovere l’animo degli spettatori.

Un ghigno oltre il futuro

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Il manifesto Dada del 1918, scritto da Tristan Tzara.

Dileggio, certo, ma pure tentativo di liberazione dalla mobilità criminale cui altri gruppi, quali i futuristi, avevano consigliato i lettori. Cosa c’è oltre il “futuro” di chi inneggiava al progresso, alla velocità, alla tensione verso una giovinezza eterna? L’indifferenza verso gli avvenimenti, la casualità del discorso, quella assurdità dell’esistenza di cui tanto acutamente scriverà qualche anno più tardi Albert Camus. Non un annichilimento passivo, quello proposto dagli artisti dada, bensì una sorta di “nichilismo attivo”, scrive Piero Bongiari nell’articolo L’uomo approssimativo di Tzara è l’uomo che si approssima, per cui all’immiserimento dell’individualità i dadaisti opponevano l’arma della parodia e del non-sense.

Un riso senza gaiezza eppure privo d’amarezza: cristallino, di chi si beffa di qualsiasi narrazione, storica come romanzesca, artistica come poetica, per adombrare nel rifiuto il precetto di un’inedita mobilità. “Dada ne signifie rien”, scrive Tristan Tzara nel Manifesto Dada del 1918, “Dada non significa nulla”, ma anche “Dada significa nulla”. Il nulla del Caso, dell’evento, il “senza-senso”, scriverà un altro tra i dadaisti, Hans Arp, della “natura e [del]la vita”: “Dada è per la natura e contro l’arte”.

Tzara: Dada prima di Dada

Non sembrava apprezzare molto, Tzara, il titolo che l’editore Sașa Pană aveva apposto alla raccolta di versi giovanili, ovvero Poesie prima di Dada, poiché “ciò lascerebbe supporre”, e la citazione merita d’esser riportata quasi interamente, “una sorta di rottura nella mia persona poetica, se così mi posso esprimere, dovuta a qualcosa che si sarebbe prodotto al di fuori di me (lo scatenamento di una fede simil-mistica per così dire: Dada) che, a dire il vero non è mai esistita; perché ci fu […] continuità e compenetrazione, legate al massimo grado a una necessità latente”.

Una necessità dunque di riscoprire dentro la propria sensibilità i germi dell’anarchismo e dello scherzetto che ha nome di Dada, di ri-attivare il nichilismo come caricandolo attraverso un meccanismo che gli permetta, dove non il volo, almeno qualche passo. Scrive il critico letterario Marin Mincu, citato da Giovanni Rotiroti tra le pagine d’introduzione al volumetto Avant-Dada per Barbès Editore, “partendo da temi simbolisti come pretesto polemico, il poeta […] pone le premesse a una critica implicita, di sfumatura dadaista, del linguaggio e dei suoi moduli espressivi”.

Una cattiva coscienza poetica

dadaIl seme Dada bisogna, tuttavia, dissotterrarlo dalla coerenza giovanile cui ancora l’autore sembrava costretto. Il fremito del dadaismo è ancora celato dietro il peso dell’idea e dell’estetica, i medesimi due elementi che Marcel Duchamp, il quale suo malgrado è forse l’artista cui più di tutti è dato del “dadaista”, decide di licenziare dai propri ready-mades. Una risoluzione che, scrive, “era fatta in base a una reazione ottica di assoluta indifferenza […] uno stato di completa anestesia.”.

Nei propri versi in lingua romena, Tzara propone un disfacimento della realtà che consumi persino quello dell’identità, per cui nel poema Disertore riporta “Guarda: il mio corpo nella polvere e dell’anima si disfa”, così ancora: “Sono nomade coll’animo rabbuiato. Rabbuiato”. Bisogna, dunque, spogliarsi dell’eroismo, distruggere il pudore, osservare la propria cugina (collegiale, per giunta) e dichiararsi a lei presentando senza vergogna le proprie “carezze di verme”. È tale il gioco degli annegati che “escono in superficie”: riscoprire quel tanto di pathos immobile che serve a conservare una voce pur dentro un amore fragile e una realtà crudele.

Antonio Iannone

Bibliografia:

T. Tzara, Avant-Dada, a c. d. G. Rotiroti, trad. it. I. Carannante, Barbès Editore.
Dada, a c. di F. Gualdoni, Skira Editore.