“Morte di Danton” diretto da Mario Martone
Nel 1835, a più di cento anni dalla rivoluzione francese, un appena ventunenne George Büchner, scrive “La morte di Danton”, testo di cui Mario Martone ha curato la regia in occasione di una pièce prodotta dallo stabile Mercadante, in scena al teatro Politeama dal 26 aprile al 7 maggio 2017.
Accostarsi ad un argomento storico ha sempre la sua complicanza; e portare in scena un dramma esistenziale di vite e di morte, scritto quasi un secolo e mezzo fa, cercando di rispettarne non solo il contesto dell’epoca ormai lontana e la prospettiva dell’autore, (ovvero un giovane Büchner che ormai non può più confermarci le sue intenzioni scrittorie), ma anche i profili contrastanti dei molteplici personaggi, rappresentazione di se stessi in quanto tali, ma soprattutto simboli di diverse classi sociali, scuole di pensiero ed orientamenti politici in un periodo complesso come una grande rivoluzione, aggiunge abbastanza filo da torcere alla regia.
Per questi e per altri fattori, la durata dello spettacolo è stata sostanzialmente corposa, in accordo con l’interesse degli spettatori, che per circa tre ore e tre quarti hanno prestato attenzione al consistente cast di attori in scena, fra i quali si annoverano nomi autoritari di professionisti del settore, quali ad esempio, Giuseppe Battiston nei panni di Danton e Paolo Pierobon in quelli di Robespierre.
In un operazione teatrale di simile portata, e soprattutto durata, è stato necessario trovare soluzioni che interagissero, in qualche maniera, con il pubblico; cercando così di mantenerne costante l’attenzione.
È cosi che Martone ha alternato momenti statici di dialoghi filosofici ed arringhe di difesa ed accusa dei protagonisti (che alcuni attori, dotati di un particolare carisma, hanno reso al massimo del potenziale espressivo mantenendo alta la soglia d’attenzione dello spettatore nonostante gli argomenti pesanti e il linguaggio arcaico; mentre altri, un po’ meno) a momenti di movimento dell’attore fra le file della platea.
La maggior parte delle scene che hanno visto gli attori scendere dal palco, sono quelle con la plebe per protagonista: le luci si alzano e i contadini e le popolane si aggirano fra la gente assopita dalle riflessioni più ingombranti, proprio a rubarne l’attenzione.
Ironica la soluzione di demarcare regionalmente la voce del popolo, che esibisce una parlata dalla forte accentazione napoletana, sebbene siamo nel contesto della piena rivoluzione francese; quasi a sottolineare che se parla il popolo, parla il popolo del luogo in cui ci si trova.
Risulta interessante anche l’espediente dei quattro sipari, che non solo hanno sfruttato a pieno la profondità del palcoscenico del Politeama, ma hanno anche risolto il problema del non poter passare da un set all’altro, dalla casa di un nobile ad una piazza di paese, da un bordello ad un salotto aristocratico ad un tetro carcere, come si farebbe al cinema; come, infatti, Martone è abituato a fare.
Le pesanti tende bordeaux che si susseguono, si aprono e si chiudono nei ritmi e nei tempi stabiliti dalla regia, rattrappendosi verso l’esterno in una trama di fili che ne denota l’aspetto elegante, e scivolando lente verso l’interno al momento di chiudersi.
Nel complesso, il gioco scenico che si è ricreato, ha sottolineato quanto davvero la forza comunicazionale del teatro si regga sull’equilibro di tutti gli elementi, nessuno escluso, dalla prima lampadina all’ultimo filo di cotone degli abiti di scena; molto credibili, nella fattispecie, quelli in questa occasione curati da Ursula Patzak.
L’impianto luci di Pasquale Marri e quello audio di Hubert Westkemper hanno assolto il proprio compito, come la scenografia pulita ma complessa e dettagliatamente curata, seppur veloce da montare e smontare nei veloci cambi di scena, firmata dallo stesso Martone, con la collaborazione di Gianni Murru.
Teatro Politeama – (sito ufficiale)
Letizia Laezza