Recensione dello spettacolo “di un Ulisse, di una Penelope”, in scena al Teatro Civico 14 di Caserta per la regia di Roberto Solofria.
Due scalette che fungono da troni, una pedana che rappresenta un’isola, Itaca, e sotto di essa una vasca, il mare, il moto, l’azione, le avventure: i viaggi di Ulisse verso la sua Penelope, rappresentati da movimenti spasmodici, veloci, scattosi, carichi di tensione. Perché “che munn foss senza e viaggi e Ulisse”.
Una scenografia che porta i segni della vita che vi è passata attraverso. Una scenografia che apre la scena limpida come l’acqua e la chiude sudicia come il fango; perché Ulisse, nei suoi trascorsi, si sporca e poi si lava, si trasforma e poi torna riconoscibile, per chi ha volontà di riconoscerlo.
Una scenografia che in se stessa respira e rappresenta, che ha vita propria e non solo funzionale, che è una componente interpretativa ed interpretabile del messaggio e non una parte secondaria del tutto.
Parliamo della scenografia di Antonio Buonocore, ideata per lo spettacolo “Di un Ulisse, di una Penelope”, in scena al Teatro Civico 14 di Caserta il 19 e 20 maggio 2017. La pièce è un riadattamento dell’omonimo libro di Marilena Lucente, a sua volta riscrittura del classico mitologico.
E in effetti, si parte da due personaggi e si arriva a due persone: il racconto dall’interno del rapporto-emblema di un eroe e della sua regina, ma in fin dei conti, le dinamiche di un uomo e di una donna. Una donna che, dopo secoli di reinterpretazioni, viene illuminata nel suo essere: chi è Penelope? Cosa fa? Che pensa? Di certo il suo calibro con può nascere e morire nei termini dell’attesa e della fedeltà. Una lettura femminile della vicenda, e questo si evince non tanto nelle sfumature di una Penelope più forte, quanto nella connotazione di un Ulisse a tratti propriamente maschilista.
La Penelope che ha calcato le tavole del palcoscenico si distanzia da quella mansueta matriarca che trapela dalle righe di Omero: resta una donna che ha sofferto, che ha paura, ma diventa una donna che reagisce; lei chiede, vuole sapere, si ribella alle continue assenze, addirittura rifiuta il ritorno di un uomo che ama, ma che sa andrà via di nuovo.
“E radicj meij sonn e pensier e te”, le dice il marito; ma non le da la certezza che resterà, in un confronto che mette in luce gli aspetti che li vede una coppia come altri milioni di coppie.
Le pause sono parole. I silenzi sono azioni. Presupposto che carica tali fatti di emozionalità; i vuoti concentrano l’attenzione e creano aspettative che, in questo particolare caso, non vengono deluse. Anche il minimo gesto di un dito, se si è riempito il giusto tempo, si fa responsabile di passare un preciso messaggio.
La sopracitata situazione incontra il suo exploit in un piccolo teatrino di mani arrangiato da Ulisse stesso; una sorta di fuori scena, una parentesi dove si racconta cosa è successo fra i protagonisti senza bisogno di interpellarli. Concettualmente, elogiabile la capacità di dimostrare quanto anche una mano chiusa o una mano aperta siano in sé stesse, nel loro corretto utilizzo, “interpretazione”.
L’idioma è una singolare trasposizione registica di Roberto Solofria, che sceglie di piegare il lingua dell’Odissea della Lucente al napoletano. Partendo dal presupposto che il re di Itaca non è propriamente un principe azzurro, né un Dio dell’Olimpo, bensì un combattente, uno che fa la guerra, vive la strada, torna rozzo, viaggia, stupra, uccide, si imbarbarisce; tale ottica potrebbe giustificare la scelta linguistica.
Resta però da considerare che la tipologia di napoletano scelta è quella di un dialetto aggressivo, d’impatto, violento, nei toni e nelle parole a volte anche fastidioso. Volutamente rindondanti frasi che si ripetono numerose volte, in tonalità diverse o uguali, fino a sfiancare l’orecchio con la certezza che quella cosa che è stata detta vive della sua sola realtà.
La Penelope di Solofria è Ilaria Delli Paoli, sempre in scena, sempre presente, sempre palpabile dal pubblico nell’anima e nella commozione, anche nei lunghi passaggi dove non sono previste le di lei battute, o dove queste sono proiettate nell’aria come voci fuori campo; un gioco difficile che poteva causare effetti controproducenti, mentre ha funzionato: ha amplificato l’intensità dell’interprete muta.
Una nota di merito è doverosa ai suoni di Paki di Maio, che non solo ha saputo trovare, o, laddove non esistevano, inventare, quelli giusti che accompagnassero l’intera pièce, ma li ha anche riprodotti dal vivo in perfetta accordanza di tempi e di modi con ciò che accadeva in scena.
Nel complesso, un esperimento interessante sotto molteplici aspetti; composto di azzardi come quello di aprire la scena con un lungo silenzio che si protraesse per tutto l’incipit dello spettacolo, scelta in bilico sul rischio di annoiare o attirare l’attenzione dello spettatore, e di simbolismi, come quello di una benda rossa che offuscasse la visuale di uno e dell’atra dei protagonisti nei diversi momenti e per diverse cause ed effetti.
Come se non si potessero vedere l’uno con l’altra. Anche quando sono vicini. Perché è più difficile ritrovarsi che trovarsi.
Letizia Laezza
Teatro civico 14 – (sito ufficiale)