L’indifferenza: una sorta di confusione riveste l’attività di tale avvenimento interiore. Come salutare la nuda vita? Cosa desiderare per conoscerla autenticamente? A ogni epoca, il proprio sentimento.
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Il mondo dell’insicurezza
Certo, la malinconia pare colei che attraverso i secoli, da Omero agli Illuministi, investe gli individui nella propria intimità più vulnerabile, eppure questo male nerovestito ha più salda dimora tra le mura dello spleen ottocentesco, quando Baudelaire si abbandona al suo paese interiore il cui incessante palpitare batte alla finestra in forma di pioggia[1].
Sovviene il Novecento, sostituendo una realtà d’orfani a quello che il memoriale autobiografico di Stefan Zweig “Il mondo di ieri” descrive quale “mondo della sicurezza”. Annichilita qualsiasi possibilità di lavorare per un ideale. Sulle spoglie dei vecchi principi, di corti ormai vetuste, si proietta l’ombra del commercio, alta e oscura sin dentro le relazioni tra gli uomini. Così descrive nel ’29 il giovane Moravia i suoi mediocri protagonisti, flebilmente legati al “mondo di ieri”, eppure radicalmente, con l’intero spirito, tesi alla propria epoca, saccheggiando a convenienza ora dall’uno ora dall’altra.
L’indifferenza del gesto
In questione, un sentimento del ridicolo che produce tra le maglie del secolo interlocutori cui raccontare null’altro che sé stessi: per chissà quale decadenza dei riti collettivi, il principio del Novecento subisce l’incessante monologare del soggetto. Non amletico, purtroppo, nessun dilemma esistenziale è percepito sul serio: piuttosto i dilemmi si vivacchiano, ci si scherza come recitandoli. Quando poi così bene si conosce qualcuno, si finisce che questi diventi insopportabile, ogni sua azione non genera che una cieca indifferenza.
Ecco che allora qualsiasi gesto si svuota di ogni progetto e diviene imitazione di ciò che “un tempo” ha rappresentato. Umiliato dal secolo l’antico regime del decoro, la mano posata ed elegante, l’abito dal taglio fresco, le poche voci che in forma di dramma occupano l’abitazione degli Ardengo (relegate ai ruoli di madri, figli, amanti), riscoprono giorno per giorno la terribile magrezza della propria condizione. Di qui l’indifferenza, quella pistola che “non spara”, perde la propria funzione per posarsi senza scopo tra le mani del giovane Michele. Lucida, l’arma diviene specchio della sua stasi: che fare? Abitare la consuetudine dei luoghi emotivi, ricercare il decoro delle passioni. Gelosia, accecamento, “gesti inconsulti”.
La pistola: il terzo incomodo
Quell’istante, nel corso della tragedia, dove l’intreccio si dispiega a favore della conoscenza, in cui Edipo ri-conosce ad esempio la donna con cui ha giaciuto sino alla notte prima, cede all’eroe occhi migliori per osservarsi come da spettatore, gli permette un gesto nuovo, inedito. Edipo si acceca, e Michele? Come si comporta il diciassettenne alla scoperta di una relazione amorosa tra la sorella e l’amante della madre? Inscena la recita di una risoluzione: muoia il traditore!
A teatro, tuttavia, ci si ammazza con armi giocattolo e con azioni ponderate: per tale ragione la pistola che il giovane nasconde in tasca non può esplodere colpi fatali che permettano una modificazione dell’indifferenza di cui la realtà si veste. L’arma svolge allora il proprio compito nel migliore dei modi: produce la finzione dell’omicidio, il lenzuolo che impersona lo spettro delle passioni.
L’indifferenza non è un umanismo
La pistola è un’arma semplice, non contempla relazione tra le parti: l’assassino è sempre un terzo, la “palla” che Michele dimentica di caricare, i cinque proiettili che colpiscono l’arabo sulla spiaggia assolata ne “Lo straniero” di Camus. È proprio a Meursault, protagonista del romanzo, che l’indifferenza sembra immediatamente rimandare. Egli non pare più affetto da quel sentimento di nausea di cui Sartre era stato il maggior narratore, piuttosto avverte, come in un perenne fastidio, l’affaticamento della sua libertà totale.
Se gli Ardengo si annoiano a causa della reiterazione secolare delle proprie azioni, Meursault riconosce invece la completa estraneità cui l’esistenza stessa lo reclude. Non è beneficiato, come il Roquentin sartriano, da uno sguardo più intimo verso gli enti del mondo, risulta piuttosto un animo che vagando riscopre la privazione del significato in forma di logoramento identitario. Il fastidio incombe, ma non è l’esatto movente dell’assassinio, come neppure può esserlo un sangue troppo caldo che viene smosso dalla semplice presenza altrui. Quell’arabo che dietro la roccia pigramente espone la lama alla luce del sole, è una presenza adornata d’assenza.
Colpevoli o innocenti?
Così, se la filosofia esistenzialista prevede un’azione progettuale che abbia pure sul piano ontologico una sorta di primato sull’avvenimento interiore (è per tale ragione che Sartre può sostenere, nella conferenza del ’45, che “l’esistenzialismo è un umanismo”), quella omicida, il cui movente è spesso la più sensibile umanità dell’assassino che si lascia vincere dalle passioni a dispetto di tutto (“l’ha fatto per un moto di gelosia”), si risolve in un atto privo di forze.
“Tutto il mio essere si è teso”, racconta Meursault quasi confessando, “ho stretto la mano sulla pistola”. Ecco, il gesto non è allora che un plagio della realtà dove il cielo si apre “in tutta la sua vastità per lasciar piovere fuoco”. Come può allora la sua mano essere colpevole, se egli non fa che tradurre in azione l’estraneità del mondo? Come avrebbe potuto l’arma di Michele permettere un mutamento della sua condizione? Colpevoli soltanto d’indifferenza.
Antonio Iannone
[1] “Sono un principe che regna su un paese di piogge”, scrive Baudelaire ne “I fiori del male”, curati in Italia da Giovanni Raboni per Einaudi.
Bibliografia
A. CAMUS, Lo straniero, trad. it. S. C. Perroni, Bompiani.
A. MORAVIA, Gli indifferenti, in Opere 1927-1947, a c. di G. Pampaloni, Bompiani.
J.-P. SARTRE, La Nausea, trad. it. xxx, Einaudi; ID., L’esistenzialismo è un umanismo, a c. di M. Schoepflin, Armando Editore.