Nel 2011 Nicolas Winding Refn vinse la Palma D’Oro a Cannes proprio per la regia di Drive. Ad oggi, Refn resta ancora un regista poco compreso.
Nicolas Winding Refn è un regista che, fin dai suoi esordi danesi, ha sempre creato aspre divisioni tra il pubblico. C’è chi lo considera uno degli autori più promettenti del panorama cinematografico attuale e chi, invece, lo considera un regista vuoto, votato solo all’estetica, privo di contenuti, irrimediabilmente sopravvalutato. Difficilmente il pubblico resta indifferente davanti ai suoi film: Refn si ama o si odia.
Il quarantasettenne regista danese (ma cresciuto a New York) è perfettamente consapevole delle ambivalenze che suscita tra il pubblico e, certamente, si diverte a cavalcare l’onda. Nel 2013, a Cannes, fischiatissimo per il suo “Solo Dio perdona“, non fece che gettare benzina sul fuoco definendo se stesso “un pornografo, che filmava soltanto quello che lo eccitava“. drive
Nel 2011 Refn era una sorta di “oggetto X” del cinema: aveva stupito con la sua “Trilogia del Pusher” (1996-2004-2005), ma allo stesso tempo aveva dovuto affrontare i flop (ingiusti) al botteghino e di critica di “Bleeder” e “Fear X” (1999-2003). Il cult “Bronson” (2008) gli aveva garantito un certo zoccolo duro di fedelissimi, il violento ed astratto “Valhalla Rising” (2009) aveva relegato forse Refn ad autore di nicchia, di non facile comprensione (data la non certo oggettiva fruibilità del film). Serviva quindi una legittimazione sul piano economico-commerciale, oltre che sul piano artistico. Nel 2011 quindi esce “Drive“, noir atipico tratto dall’omonimo romanzo del 2005 di James Sallis.
La trama di Driver
In una Los Angeles oscura, sporca e mai sfavillante, Driver (il nome del protagonista non viene mai svelato) è uno stuntman e pilota provetto che lavora come aiutante nell’officina del meccanico Shannon, gambizzato in passato per i suoi problemi con la mafia e che cerca, con l’aiuto del boss locale Bernie Rose, di lanciare il proprio pupillo nel mondo delle corse NASCAR. L’abilità alla guida di Driver tuttavia, non viene sfruttata semplicemente sui set cinematografici e sulle piste californiane; infatti il taciturno pilota arrotonda lo stipendio con la sua rischiosa attività notturna di autista nelle rapine, freddo, iperprofessionale e preciso, apparentemente incapace di avvertire il minimo calore umano.
Giorno dopo giorno, tuttavia, comincia a mostrare una certa affinità ed un certo trasporto (ricambiato) verso la bella e dolce vicina di casa Irene, madre del piccolo Benicio e il cui marito, Standard (si, si chiama così), è in carcere. Quando Standard esce di prigione, il rapporto tra Driver ed Irene sembra irrimediabilmente destinato a troncarsi. Tuttavia, una sera, il pilota rientrando a casa rinviene Standard a terra, pestato a sangue da due uomini. L’uomo racconta al taciturno protagonista di essersi pesantemente indebitato col mafioso Nino, in cambio della protezione avuta in carcere, e che Nino, stanco di non ricevere il denaro, ha intenzione di “spostare le sue attenzioni” su Irene e il piccolo Benicio. Driver decide allora di aiutare la famiglia di Standard: è l’inizio di un incubo.
Drive: un giudizio
L’ottavo film di Refn ci regala la maturità artistica del regista danese. Sceneggiatura ridotta a brevi ma incisivi dialoghi, scenografie ricercatissime, colonna sonora perfetta, violenza esplosiva: Drive contiene tutti i canoni del cinema refniano. Come sarà per “Solo Dio perdona” e, soprattutto, per “The Neon Demon“, ogni singolo fotogramma di questo film potrebbe tranquillamente essere stampato, incorniciato ed appeso in una galleria d’arte.
La ricercatezza della luce perfetta, dell’armonia d’immagine, dell’intensità massima del colore (ovviamente a dominare è il rosso) hanno una cura maniacale, che fa sanguinare le mani a furia di applausi agli addetti ai lavori. La recitazione è perfetta, il cast scelto con intelligenza.
Ryan Gosling (qui probabilmente alla miglior interpretazione della sua carriera) regge sulle proprie spalle il peso di questo film, fatto di primi piani lunghissimi ed estenuanti, poche battute e una certa glacialità espressiva che delinea perfettamente la personalità di Driver. Carey Mulligan, l’inoffensiva Irene, il volto della purezza, riesce a rendere perfettamente l’idea di una giovane donna malgrado tutto ancora innocente, costretta a vivere in un mondo di uomini violenti. E poi il grande Bryan Craston nel ruolo dell’impotente Shannon, il roccioso Ron Perlman nel ruolo del gangster Nino, un universo di ottimi caratteristi. Il cast di “Drive” è uno dei suoi punti di forza.
Protagonista assoluta è poi la colonna sonora. Le musiche sono da sempre uno dei punti di forza dei film di Refn, che dimostra di possedere una cultura musicale molto ampia film dopo film. In Drive il connubio musica-regia-fotografia è più forte che mai. E’ l’elettronica a farla da padrone: le musiche di Clff Martinez sono accompagnate dall’accattivante tema “Tick of th Clock” dei Chromatics, dall’oscura “Nightcall” di Kavinsky e dalla dolce e malinconica “A Real Hero“(vero manifesto del Driver) degli Electric Youth accompagnati da College. La musica elettronica ambientale crea un unicum con i titoli di testa rosa shocking, i primi piani granitici, la luce a tratti fredda a tratti incandescente, molto spesso al neon.
La violenza di Drive è esplosiva, disturbante, rapida, mai nulla viene risparmiato allo spettatore. Le improvvise esplosioni di violenza rispecchiano la personalità del protagonista: un ingenuo virile (topos dei film di Refn) che si ritrova a combattere, suo malgrado, una guerra non sua, e che affronta la vita con una timidezza evidente, frutto della totale assenza di capacità relazionali, che tuttavia esplode nei momenti di pericolo. Del resto lo scorpione stampato sulla (orribile) giacca del protagonista indica fin da subito quale sia la reale natura del nostro pericoloso eroe.
Drive incassò 80 milioni di dollari a fronte dei 15 spesi (una cifra abbastanza bassa per gli standard americani) e fece guadagnare a Nicolas Winding Refn la Palma D’Oro come miglior regista alla 64esima edizione del Festival di Cannes. Da allora Refn ha girato due film, attaccati ingiustamente dalla critica e da buona parte del pubblico: “Solo Dio perdona” e il bellissimo horror “The Neon Demon“. Come detto prima, i detrattori lo accusano di essere un regista privo di contenuti, eccessivamente concentrato sull’immagine. Un puro esteta, insomma. Francamente è avvilente constatare quanto il pubblico sia ormai poco capace, o poco in grado, di valutare un film nella sua interezza: la ricercatezza stilistica di Refn è contorno per le sue storie eccezionali, semplici narrativamente parlando (e senza fronzoli), ma introspettive come poche, scritte da un autore (o dai suoi collaboratori, in questo caso Hossein Amini) con un’intelligenza emotiva molto fine. L’estetica refniana è una firma su una storia assolutamente ben scritta ed ottimamente girata e non va assolutamente valutata come un qualcosa di indipendente dalla storia stessa. Questo è il principale errore che commettono i detrattori di Refn, un regista mai realmente compreso dai più.
L’autore di Drive quindi si pone al vertice della generazione degli enfant prodige nati artisticamente verso la seconda metà degli anni novanta, e che si sono affermati nel corso dell’ultimo decennio. In un cinema che sta diventando sempre più autoriale, anche nel senso estetico del racconto, registi come Nicolas Winding Refn, Paul Thomas Anderson e Wes Anderson (e, perché no, anche Quentin Tarantino, anche se ha iniziato a girare all’inizio dei ’90) appaiono come il futuro per la settima arte.
Nel proliferare di blockbuster e film studiati a tavolino per il pubblico, dove le sale sono minacciate dallo strapotere del web, film senza compromessi come quelli di Refn sembrano essere una fresca boccata d’ossigeno per gli amanti del cinema.
Domenico Vitale