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Flaiano oltre Flaiano
Chi avesse passeggiato, in una giornata dicembrina, per le strade della Milano del ’46 avrebbe potuto incontrare, certo fortuitamente, due uomini chiacchierare di letteratura, come tanti se ne scorgevano in quegli anni. Uno, tarchiato, le cui labbra erano incorniciate da un paio di baffetti neri, l’altro, più alto e impercettibilmente più elegante, con i capelli tirati all’indietro. <<Mi scrive un romanzo per i primi di marzo?>>, avrebbe chiesto il secondo al primo: era Leo Longanesi, ardente editore per Longanesi & C.; l’altro, Ennio Flaiano.
Come si poteva negare un romanzo a quegli occhi di Longanesi, <<vivi e lucidi, sempre pieni di simpatia e indignazione>>, come ricorderà lo stesso Flaiano in un’intervista sul “Mondo”, datata 8 ottobre 1957? Il romanzo cominciò a prender forma, appena vestito dell’autobiografia dell’autore. L’Africa, il luogo dove non più di dieci anni prima s’era consumata la Campagna d’Etiopia con cui Benito Mussolini desiderava dar prova di un impegno muscolare che ricostituisse le macerie ormai perdute dell’Impero Romano, era la scena più intima di cui l’autore desiderasse scrivere.
Tempo di decidere
Bisognava, per il regime, dimostrare la propria fiera appartenenza alla pletora di quanti, Gran Bretagna e Francia su tutti, facevano dei possedimenti africani il proprio fregio imperiale: tra i combattenti, il sottotenente Flaiano. Così, da un travaglio decennale, la genesi “a caldo”, poiché sempre “a caldo” sosterrà di scrivere l’autore, di un romanzo sul cammino verso il labirinto della moralità.
Lontana dalle produzioni dell’epoca, l’opera, che pure sarà l’unica produzione romanzesca di Flaiano, alle quali preferirà differenti forme del linguaggio narrativo quali l’aforisma o l’elzeviro, permette una metamorfosi tra luogo e ambiente. L’Africa cui si accenna tra le pagine risulta infatti una precisa descrizione del sentimento che incessantemente rapisce l’ufficiale protagonista. Pigramente egli cammina per strade sconosciute, incontrando volti che di volta in volta gli appaiono sempre più distanti. Gli abitanti? Tutti simili tra loro; le milizie italiane? Ancora più nebulosi i loro profili. Giammai abbandonato dall’accidia, si lascia vivere dagli eventi, concedendosi di tanto in tanto lo svago di un’avventura.
Il due volte straniero
L’Africa è in verità soltanto evocata, appare nei lineamenti delle numerose Mariam che scorge di lontano, i cui profili si soprappongono in una danza che, ancora una volta, non permette alcuna distinzione. Più che il Meursault di cui qualche anno prima aveva scritto Camus, il sottotenente in Africa è due volte straniero: egli è l’invasore che occupa, certo pigramente, il territorio d’altri; ma pure non riconosce alcun sentimento che gli sia proprio, egli è dunque l’invaso. Quell’ambiente è ciò che gli persiste nella sua più terribile intimità; gli avvenimenti lo infiacchiscono nelle decisioni.
La donna, ennesima Mariam, con cui trascorre la notte, lo relega al ruolo di omicida, lasciando serpeggiare nella sua psiche la costrizione alla continua ricerca di un rifugio. Ovunque il deserto, l’indifferenza. La noia si scaccia con una sigaretta accesa tra le labbra di un camaleonte, adesso “vero diplomatico”, pronto ad attuare un compromesso pur dentro quella miseria. Come si può reagire al caso, meglio, come si può non reagirvi? Forse, l’esotismo sopravvive nel gonfiore a una mano, ormai certamente attraversata dalla lebbra. Unica risoluzione: tornare in Italia, seppure da disertore.
Nessun delitto, nessun castigo
La moralità, tuttavia, pare manifestarsi come sottrazione di avvenimenti. A quel medico che potrebbe denunciarlo e a cui è data una morte certa tocca in sorte la salvezza; a quel tenente da cui ruba il denaro per la fuga, pure. Vano qualsivoglia intervento, per quanto l’ufficiale provi a ritagliare per sé la parte ponderata dell’assassino. Le parti, gli uomini non possono sceglierle da soli: agiscono malgrado loro. Quali intenzioni cova il protagonista? Per quali propositi si affanna? In ognuno di essi si ritrova tradito.
Decide, infine, di farsi “persona morale”, costituirsi per gli omicidi che pur non ha commesso attivamente. Persino la salvezza, tuttavia, gli si presenterà come una condanna. Se lo stesso Flaiano può sostenere, dissacrando la propria opera come di tante nel corso della propria carriera, che il romanzo ha per titolo “Tempo di morire” invece che “di uccidere”, è poiché, sotto il peso di un’accidia contingente, si annichilisce il logico susseguirsi di causa/conseguenza come delitto/castigo. Nessun castigo, nessun delitto; neppure tempo: né per uccidere, né per morire.
Antonio Iannone
Bibliografia
E. FLAIANO, Tempo di uccidere, a c. di A. Longoni, Bompiani.
Le interviste citate sono contenute in E. FLAIANO, Opere. Scritti postumi, a c. di M. Corti – A. Longoni, Bompiani.