Nadia Baldi e la sua regia di “Ferdinando”
Ferdinando. È un nome borbonico, e pertanto solo per questo gradito alla baronessa Clotilde (una magistrale Gea Martire), che proprio non accetta l’unità d’Italia, l’utilizzo della lingua italiana, né Vittorio Emanuele di Savoia.
Siamo nella seconda metà dell’ottocento, in una ricca villa in zona vesuviana, precisamente nella stanza da letto di una nobile spiantata che ha deciso di ritirarsi a vita privata opponendo così un netto rifiuto al radicale cambiamento della società, godendo, durante il suo allettamento ipocondriaco, della compagnia del parroco di paese, don Catellino, (Fulvio Cauteruccio), e dell’assistenza di una cugina nubile e non agiata economicamente, Gesualda (Chiara Baffi), con la quale si instaura un rapporto vorticoso che passa dall’odio più acerrimo alla complicità.
Siamo nello spettacolo di Annibale Ruccello, per l’appunto, “Ferdinando”, disponibile al San Ferdinando fino al 15 gennaio 2017. In scena dopo più di trent’anni dalla prima ufficiale, “Ferdinando” non smette di stupire per l’infinità di snodi psicologici dell’animo umano leggibili fra le righe di un irriverente drammaturgia per la maggior parte tutta in dialetto. La trama è come i dialoghi; scanzonata, senza limiti, senza tabù, diretta. Sfidando i valori dominanti del periodo storico rappresentato, Ruccello va oltre la blasfemia, la cortesia, il contegno, il ritegno, la buona educazione e il rispetto della chiesa, per cercare di individuare oltre tali scudi di conformata civilizzazione cosa cela nel profondo della sua indole l’essere umano.
La regia di Nadia Baldi cerca di sottolinearne tali sfumature recondite e sordide, partendo da Incroci di sentimento e passione incestuosi, peccaminosi ed omosessuali; che sembrano essere il motore di un mezzo che si compone di molte altre parti indispensabili.
Ogni personaggio, in quanto uomo o donna, ovvero essere fatto di carne, desiderio e ambizione, ha le sue motivazioni che lo spingono all’azione che porta avanti la piecè per 135 minuti. Ci sono l’avarizia di denaro, gli inganni, la finzione, la crudeltà più spietata, la freddezza, il cinismo, il classismo, la noia e la malinconia, l’innamoramento e la passione, il peccato e il desiderio di peccare, di uscire dagli schemi, di infrangere le regole, di vivere una sessualità ingiustamente soppressa.
Interessante la trasposizione simbolica delle condizioni esistenziali sugli oggetti: una veste da camera che diventa un tutt’uno con il letto stesso, sottolinea in questo modo lo stato di malattia, che immaginaria o meno tiene la baronessa “agganciata” al suo giaciglio, in una forma di depressione che le ritorna indietro come un boumerang, insieme alla veste da camera, a fine spettacolo; quando Ferdinando (Francesco Roccasecca), l’amato nipote che aveva riportato il brio del sesso e dell’innamoramento nella sua vita, si rivela essere qualcosa di diverso dalle sue aspettative.
Un bambolotto smembrato fa da leggio sul pianoforte in proscenio, ricordando la mutilata innocenza di Ferdinando stesso, poco più di un ragazzino anagraficamente, che si abbandona a tratti, fingendo o meno, ad atteggiamenti di tenera infantilità; ma che è anche scosso da una scabrosa ed incessante sessualità, da un morboso desiderio di possedere ed essere posseduto che caratterizza il suo personaggio in sfumature ambivalenti.
Anche la ricca scenografia firmata da Luigi Ferrigno aderisce ai canoni di un certo simbolismo.
Ci sono sedie che diventano carrelli, o dondoli all’occorrenza, c’è una soffittatura che vede pendere liane e corde con cui giocano i personaggi procurandosi oggetti di scena per tutto lo spettacolo, come campanelli, vassoi, fiori e voti religiosi; ma resta all’immaginazione del pubblico figurarsi a modo proprio gingilli semplici come una bottiglia di rosolio, un bicchiere o un libro.
Salta all’occhio un vivace dualismo cromatico fra le coppie Don Catellino-Gesualda (abbigliati in tinte scure) e Clotilde-Ferdinando (abbigliati in tinte chiare). Ma la funzione giocata dai colori non si esaurisce ai costumi dei protagonisti, curati da Carlo Poggioli, sebbene questi in pochi dettagli esprimano molta parte della loro complessità (esempio lampante, la compostezza fredda ed arcigna di Gesualda, figurata in un abito scuro e monacale, lascia sfuggire il suo viscerale desiderio sessuale in un lussurioso sottoveste bordato di rosso che si intravede nei suoi momenti di massima espressività corporea).
I colori hanno comunque ruolo indicativo e suggestivo anche nelle sfumature di luce che caratterizzano lo spettacolo, secondo il disegno luci della stessa regista Nadia Baldi.
Letizia Laezza
Ferdinando- Teatro San Ferdinando- sito ufficiale