La “Medea di Portamedina” di Mastriani in scena questo settembre a Napoli: la potremo rivedere l’otto settembre 2017 al Maschio Angioino, location che è già stata testimone di un processo ambientato in una Napoli antica ma intramontabile.
Suggestiva ambientazione per spettacoli che romanzano aspetti di una passata realtà, ma che non perdono il contatto con un minuzioso contesto storico, il cortile dell’imponente palazzo ha ospitato questo giugno (sabato 24, per la precisione) il “Processo ad una strega”, scritto da Annamaria Russo ed interpretato da Marianita Carfora. Al principio di questo autunno, invece, lo stesso duo di artiste ripropone nel medesimo luogo la Medea di Portamedina, già rappresentata a fine luglio (29-30-31) all’orto Botanico.
Scritto da Mastriani nel 1882, il romanzo di ambientazione fine settecentesca diviene pièce passando per le mani della sovra citata Annamaria Russo.
La trama è in gran parte nel titolo: c’è una donna, Coletta Esposito, direttamente dalla ruota degli esposti, che è una Medea nostrana, di Portamedina, fortemente legata ad un vernacolo antico di cui Mastriani è maestro, tramite il quale riesce a svelare cupe sfumature che in altra lingua resterebbero bloccate nelle pieghe dell’animo umano.
E nei girotondi di questo napoletano così vissuto, prendono forma le personalità più complesse ma lineari, dalla facile comprensione. Prende forma un mondo, che è quello dei bassifondi napoletani del diciottesimo secolo; prendono forma storie così tristi cui conducono spesso la miseria e la povertà, che appaiono, a volte, interamente inventate. A Mastriani, invece, piaceva raccontare crude verità.
Come la protagonista della tragedia greca, che si macchia dell’infanticidio dei figli per vendetta di un marito infedele, Coletta si mostra cinica, priva di sentimento materno, piuttosto colma di odio e di desiderio di rivalsa e pronta all’ignobile infanticidio pur di trovare il modo più crudele di colpire Cipriano, l’unica persona nella quale aveva investito, creduto, riposto speranza di un calore umano a lei sconosciuto e di una serenità per lei sensazione ignota. Uomo, in ultimo, colpevole di averla illusa, tradita, abbandonata, dimenticata.
Ma non siamo nella Grecia antica, siamo a Napoli, a Portamedina.
La nostra protagonista non è nipote di strega, come Medea lo era della maga Circe, ma piuttosto è testimone di usi e costumi barbari di una città malandata e malinconica, che se non fosse per l’oculatezza di autori amanti della cronaca come Mastriani, sarebbero finiti accartocciati fra i risvolti dell’ “evoluzione civile”.
Un dialetto che non è lingua ma contesto, aiuta il pubblico a collocarsi precisamente nel dove e nel quando di Coletta Esposito.
Sono di altrettanto supporto a questa causa gli idonei costumi di Annalisa Ciaramella.
Un tocco di legno che troneggia al centro dell’altrimenti scarna scenografia, parla dell’epilogo già dal principio.
Interessante l’opzione scelta dalla regista (Annamaria Russo) di affettare lo spettacolo in più blocchi organizzati in retrocessione, partendo da un’udienza ed arrivando al suo principio , inscenando e quindi spiegando gli avvenimenti mano a mano che le accuse verso Medea si infittiscono in un processo infinito e ripartendo ogni volta dal punto preciso in cui ci era iniziata la scena precedente.
Semplice ma funzionale anche la modalità scelta per rendere tangibile quel circuito di pazzia che ha attanagliato la mente di Coletta, fra ricordi, mancanze, carenze affettive, delusioni, dolori, solitudine, ignoranza, ignominia, fame e miseria non solo economica, ma umana. Frasi e volti del suo breve vissuto che le ruotano nella testa (dove il pubblico avrà la sensazione di sentirsi) e le sputano le peggiori verità senza che lei possa fare niente per sfuggire loro, senza che lei si possa aggrappare ad una idea, una sola idea positiva per scappare da un destino funesto.
Questa Medea di Portamedina non è mentale, non si perde fra i cunicoli del cervello umano, non richiede un’accurata analisi psicologica: è un personaggio semplice. È un personaggio che non riceve amore, quindi non ne conosce e non se dare. Quando lo cerca, non ne resta che ulteriormente delusa, e la pièce non manca di lasciare evolvere un dubbio: questa eroina cattiva non è forse tanto fredda ed inumana quanto quella Euripidea, se, a quanto si può intuire da qualche battuta, non strangola la figlia solo per vendetta, ma per non vederla soggetta al suo stesso destino; figlia di nessuno, figlia senza cognome, priva di casato e di dignità, figlia della “Madonna” e della ruota degli esposti.
Bella la soluzione di musicare lo spettacolo dal vivo con strumenti grezzi che riportano ad un passato remoto e attraverso la voce solitaria, pulita, quasi sofferente di Sonia De Rosa.
Degna di nota la figura di donna Cesarina, una nobildonna che sotto un velo di mistero assurge ad un ruolo fondamentale nella vita di Coletta, mantenendosi però costantemente in equilibrio fra il rivelasi ed il nascondersi; dell’abilità in questo compito c’è da omaggiare la bravura dell’interprete, Rosaria De Cicco.
“tu si nu cacciuttiell can un a maij ricevut o ben, e mozzc a man e chi a ra a mangià”
In queste poche parole la sua protettrice racchiude l’essenza più profonda del complicato carattere della Medea di Portamedina.
“Ciprià, nun m lusingà cu sti prumess, ca sarann a cundann toj si nun sarai capace re mantenè”.
Ed invece l’eroe disonesto conferma le teorie di Coletta al riguardo del fatto che per lei la vita non abbia messo da parte un po’ della tanto ambita felicità che tutti cerchiamo.
Ed è là che Medea ci pensa. Ci pensa che l’illusione è un’inutile lusinga. Che per una volta che credeva le fosse toccata una qualche gioia, aveva dovuto presto restituirla.
Che nessuno l’aveva mai profondamente amata da non abbandonarla, neanche la madre.
E che, molto probabilmente, per quella via sarebbe passata anche la figlia.
E tragedia fu.
La Medea di Portamedina- Produzione il Pozzo e il pendolo – (sito ufficiale)
Letizia Laezza