Dita di dama di Chiara Ingrao in scena al teatro deconfiscato
Dita di dama è innanzitutto un libro, pubblicato nel 2009 da Chiara Ingrao, con molta probabilità partendo dalla base di esperienze personali. È poi, sopra ogni cosa, una storia di vite. Di molte vite: di Maria, di Francesca, di Sergio, di Peppe. Di operai, di genitori, di padroni, di marcatempo, di capogruppo, di studenti, di ribellioni, di un’epoca.
È il racconto di un periodo storicamente importante; non perché ne esistano di insignificanti, ma perché quello che precisamente viene affrontato si articola in quei dieci anni che vanno dalla rivolta degli studenti a quella dei metalmeccanici. Una significativa svolta per gli italiani, per i lavoratori, per le donne.
È anche, e non in ultimo, uno spettacolo teatrale. Lo ha reso tale Laura Pozone, che, partendo dal romanzo ha dato corpo, colore, voce e movimento alle figurine letterarie di Chiara Ingrao.
“Dita di dama”, riadattato in una drammaturgia e poi diretto da M.Loizzi e dalla Pozone e interpretato dalla stessa, ha anche chiuso in data 14 settembre 2017 la rassegna “Teatro Deconfiscato”, diretta da Giovanni Meola e organizzata presso il caratteristico spazio dell’ex-masseria Magliulo.
Al riguardo della pièce merita di essere sottolineata una particolare direzione interpretativa: i personaggi sono tanti, troppi. Quindi anche la durata dello spettacolo è abbastanza consistente (circa 85 minuti). Le location sono disparate; le voci, i suoni e i rumori rendono attendibile la loro riconduzione ad un’unica scena. Anche l’interprete è una. Laura Pozone si pone come narratrice, come voce del romanzo, come alito di parole scritte.
Ma si pone anche come un tramite fra il pubblico ed il libro, così che non sia possibile banalizzare la performance ad una semplice lettura ad alta voce: lei è presente e rende lo spettatore consapevole di tale dato. Non scende alcun velo di mistero fra lei e gli spettatori: il rapporto è diretto, nessuna quarta parete. Nessun tacito patto di accordo con la “finzione scenica”. L’attrice crea una possibilità addirittura di dialogo, ponendo domande, facendo battute, attutendo i colpi degli imprevisti in una giocosa atmosfera di interazione.
Spirito di improvvisazione, capacità di adattamento, forte ironia e simpatia che rendono il pubblico “vicino”, partecipe del tutto e quindi attento in maniera costante a non perdersi la virgola, l’evoluzione, la battuta. Una serie di caratteristiche che in genere riguardano un cabaret da villaggio competenza degli animatori e non degli attori; e invece no. Proprio no. La soluzione trovata per “animare” lo spettacolo viaggia sul filo del rasoio, ma non crolla nella banalità.
Un’altra notevole qualità della Pozone è stata quella di dare vita a uomini e donne, ragazzi e anziani, arroganti e combattenti, ovvero, caratteri agli estremi antipodi, tutti concentrati nella stessa figura (la sua), ma fortemente contraddistinti da tratti diversificanti per ogni personaggio, che hanno reso molto difficile andare in confusione o perdere il senso o non capire chi sta parlando, di cosa e con chi; il tutto senza dimenticare l’importanza del ruolo narrante, figura costante.
In adesione alle abitudini scenografiche del “teatro deconfiscato”, la scenografia ( di Paola Tintinelli) ha seguito una linea semplice e spoglia, supportata da pochi e freddi pezzi di arredamento che però hanno reso bene l’idea del punto di partenza delle vicende: un arido luogo di lavoro, dove l’operaio viene quasi lobotomizzato, dove lavora troppo, vive poco, entra col buio, esce sempre col buio, non ha diritti, non ha modo di godersi i soldi che si stenta, non può neanche andare al bagno in spensieratezza, viene quindi mortificato nell’intimità della sua persona, e vede, “da contratto”, morire giorno per giorno la propria fantasia, la creatività, l’iniziativa; dove gli si appassiscono i sogni, gli obiettivi, confinato com’è al suo ruolo di semplice ingranaggio di una macchina gigantesca che va avanti investendolo e fregandosene del fatto che una fabbrica è fatta di persone, e che le persone hanno e sono delle vite.
È una storia anche di solidarietà. Di rapporti. Di ragazze che crescono, che si evolvono, che trovano una causa per la quale lottare, che imparano a vincere, a pretendere una vittoria e ad incassare una sconfitta.
È una storia di donne; che si sa, quando si concentrano in troppe nello stesso luogo diventano facilmente poco meno che un covo di arpie. Specialmente se il luogo in questione mette gli animi in condizioni di frustrazione e in loro desiderio di prevaricazione.
Ma quando il male è comune, allora mezzo gaudio.
E se lo stesso male affligge tutte, anche se ci si sta antipatiche o se si è in perenne competizione, la causa diventa comune. La causa di ognuno diventa la causa di tutte.
A quel punto, nella gigantesca macchina che ingabbia tutti, ci si trova comunque un obiettivo: quello della lotta, dell’imposizione dei propri diritti personali.
Belle le musiche, alcune originali, di Giovanni Melucci, che come sempre insieme alle luci fanno il teatro.
Simpatica la soluzione di aprire lo spettacolo con una registrazione di diversi momenti dello spettacolo, che poi a tempo debito torneranno. Laura Pozone ha raccontato una bella storia che non meritava di essere dimenticata fra gli scatoloni impolverati della soffitta dei ricordi.
Letizia Laezza
Teatro de confiscato – (pagina fb ufficiale)