A Edmund Husserl, con venerazione e amicizia. Il pericolo d’annegamento per chiunque si inabissi nell’opera di Martin Heidegger è certo giammai abbandonato. Servirà indugiare sulla riva, dove si rischia appena di bagnarsi i piedi. Lì, prima che quel percorso oceanico verso il disvelamento della metafisica dal nome di Essere e Tempo abbia finalmente – e fatalmente – principio, un’amorevole dedica si manifesta al lettore. Ligio, l’allievo dimostra la propria contiguità, non soltanto intellettuale, al maestro. Qualcuno potrebbe mai credere che lo stesso allievo espungerà senza remore quella dedica durante l’avvento del nazionalsocialismo? Mai considerare un ebreo degno di <<venerazione e amicizia>>, sia pure dal così fine intelletto.
È il 1933 quando un giovinotto francese, decisamente strabico, sazia la conoscenza filosofica impartitagli alla Sorbonne (molto scarsa, in verità) con alcuni testi redatti a firma di quell’ebreo, di cui aveva già ascoltato sommariamente le teorie dal collega Raymonde Aron. È proprio una giovanile opera di Sartre, il francesino, a permettere un primo scorcio sulla filosofia husserliana: nel ’39, difatti, diviene edito “Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità”, redatto durante gli studi berlinesi.
L’epoca dell’epoché
Il cammino verso le cose stesse rivendica una faticosa dedizione, la messa in dubbio di qualsiasi pretesa oggettiva. È dunque in tale ambiente che si manifesta l’apparizione di un’epoché quale metodo attualizzabile per il disvelamento fenomenologico. Una totale sospensione del giudizio, da relazionare a quel “Discorso sul Metodo” per firma di Descartes che incontrava nel dubbio la più autentica costituzione d’identità.
Comunque io percepisca, rappresenti, giudichi, inferisca […] è assolutamente chiaro e certo che io percepisco questo o quest’altro.
Tale astensione, lungi dal negare l’esistenza del mondo, ne particolarizza le manifestazioni dentro lo sguardo di una riduzione fenomenologica. Mai riduzione fu tuttavia tanto estesa.
Dove opera, il lavoro intellettuale di Husserl? Al solito, l’opera di Heidegger permette una formula tanto breve quando adatta: nel-mondo, vale a dire in quell’ambiente in cui si conformano quelle “cose stesse” a cui la fenomenologia dovrebbe dispiegare il percorso. Un mondo, certo, non soltanto d’apparizione fenomenologica, ma che pure contenga la coscienza che lo osservi. Un mondo-della-vita, dove non vi sia più alcuna fenditura tra il soggetto in atto di percepire e l’oggetto percepito. Nella citata opera di Sartre si legge che <<Husserl ha reinserito l’orrore e l’incanto nelle cose>>.
Un’idea fondamentale di Husserl: l’intenzionalità
“Intenzionalità” è un termine di cui Husserl, dopo attenta critica, si appropria dal maestro Franz Brentano, per cui ogni coscienza è coscienza intenzionale di qualcosa, ovvero spogliata di qualsiasi carattere oggettivo. E pure, confliggendo con Immanuel Kant, il fenomeno husserliano non diviene l’oggetto di una sua ri-costituzione noumenica e dunque oggettiva. Ancora un discepolo di Husserl, più ligio forse dei succitati, Maurice Merleau-Ponty, descrive chiaramente la relazione tra l’oggetto e il soggetto percipiente nelle pagine introduttive alla “Fenomenologia della percezione”, per cui <<l’uomo è nel mondo e nel mondo egli si conosce>>.
<<La parola intenzionalità>>, spiega lo stesso autore nella seconda delle sue “Meditazioni Cartesiane” <<non significa altro che quella proprietà universale e fondamentale della coscienza, di esser coscienza di qualcosa>>. Proprietà, dunque, di una coscienza che tuttavia non si distingue dal soggetto cosciente quale teso alla riflessione. L’oggetto di coscienza è invero da cercarsi fuori da qualsiasi idealismo, pur quello psichico descritto da Brentano. Dell’oggetto, il fenomeno, non v’è alcuna forma pura che non quella del vissuto esperita per mezzo della coscienza.
È possibile una verità fenomenologica?
L’interrogativo che il lettore assennato starà ponendosi, con una tazza che adesso osserva dalla scrivania e che in seguito scorgerà dall’uscio della camera, è tale: che tipo di verità ammette una filosofia che si presenta così rapsodica? Certo non quella tradizionale di verità quale adeguazione di un ente alla nozione ideale e perfetta di esso: nessun Platone che troneggi.
Duplice, lo sguardo husserliano sull’oggetto: nell’intenzionalità è distinto un aspetto soggettivo, nóesis, compiuto attraverso gli atti d’una coscienza che osservi quell’oggetto; e uno più oggettivo, nóema, non più riferito all’oggetto, bensì alla percezione reiterata dello stesso, conformata in ambienti quali la memoria e l’immaginazione. Di quella tazza di caffè di cui ha fruito il lettore assennato, nóesi è la presentificazione degli atti compiuti su di esso: osservarla da diverse angolazioni, afferrarla da destra o da sinistra, bere; nòema è invece l’insieme dei dati con cui essa gli è apparsa: l’averla osservata, l’averla afferrata da destra o da sinistra, aver bevuto.
Naturale che a oggetti differenti sottenda una differente verità. “Adeguazione” e “corrispondenza” divengono relativamente i termini che abbracciano, l’uno, l’istanza nóetica e l’altro, quella nóematica. Completamente risolta nel soggetto percipiente, il quale tuttavia esperisce una <<datità originaria>> dell’oggetto, come si legge nei “Prolegomeni alla logica pura”. È lì, dentro l’ambiente d’una vita pulsante nel mondo che l’oggetto ricolma se stesso in termini di intenzione e realizzazione effettiva. Lì si conforma la sua più autentica identità.
Antonio Iannone
Bibliografia
A. Schnell, Husserl e i fondamenti della fenomenologia costruttiva, trad. it. M. Cavallaro, Inschibboleth Edizioni, 2015.
R. Raggiunti, Introduzione a Husserl, Editori Laterza, 1994 [1970].