Alla morte di Teodosio, nel 395 d.C., in piena crisi territoriale, l’Impero Romano veniva affidato ad una figura essenzialmente nuova, l’ultimo reggente di entrambe le sue partes, quella occidentale e quella orientale: il vandalo Stilicone era stato nominato magister militum – “generalissimo” dell’esercito – e tutore di Onorio e Arcadio, figli di Teodosio ed eredi al soglio imperiale rispettivamente d’Occidente e d’Oriente.
Si trattava di un personaggio insolito, un barbaro a capo delle forze militari dell’Impero, chiamato a fronteggiare le pressioni delle stesse popolazioni barbariche da cui proveniva. La sua brillante parabola militare e politica si colloca nel decennio tra IV e V sec. d. C.: sarà lui ad avere nelle mani le sorti dell’Impero Romano, proprio uno di quei barbari da cui Roma intendeva difendersi e per mano dei quali sarebbe caduta circa settant’anni dopo.
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Romani e Barbari: una lenta integrazione
Stilicone fu solo il prodotto di un processo di “barbarizzazione” dell’esercito romano – e quindi dell’Impero in generale – che era cominciato secoli prima, almeno dalle campagne di Marco Aurelio contro Quadi e Marcomanni verso la fine del II sec. d. C.
Da quando il governo imperiale aveva compreso la labilità del limes – il confine dei territori romani – sotto le pressioni delle genti confinanti, aveva cercato di aggirare il problema, arruolandole in contingenti militari speciali, di cui si serviva occasionalmente. In un lento e complesso processo di integrazione, dopo le pesanti incursioni barbariche entro i confini imperiali, culminate nella clamorosa sconfitta di Adrianopoli del 378 d. C. da parte romana, Teodosio aveva ritenuto necessario stipulare un foedus – un patto – con i Goti, in cui concedeva loro di insediarsi al di qua del confine danubiano, nella Mesia inferiore e in Tracia (più o meno odierna Bulgaria), in comunità autonome, che, tuttavia, avrebbero pagato tasse all’Impero e servito uomini in truppe scelte, i foederati appunto. Le notevoli opportunità di svolgere una brillante carriera nell’esercito stanno alla base dell’ascesa politica e militare di Stilicone.
La crisi gotica e la sfiducia delle corti imperiali
Il generale si trovò dunque ad affrontare una crisi notevole: da un lato il goto Alarico, re della tribù dei Visigoti, stanco del suo ruolo secondario e nella speranza di compiere una carriera come quella di Stilicone, rompeva i patti stipulati con Teodosio, occupando nuovi territori: era ormai evidente che l’arruolamento dei barbari nell’esercito esigesse un’integrazione a più livelli della società. Dall’altro lato, l’imperatore d’Oriente, Arcadio, ormai adulto e sovrano alla corte di Costantinopoli, autonoma rispetto a quella occidentale, guardava con sospetto al vecchio tutore, sempre più forte: un potere che cominciava a spaventare anche l’altro imperatore, Onorio.
Tra dissidi e sospetti da parte dei generali romani e delle corti imperiali, Stilicone seppe respingere le minacce dei barbari sul Reno e sul Danubio, e alcune rivolte in Africa: le fonti letterarie rispecchiano questo clima di incertezza e di sospetti, tra chi ne elogia le capacità, dipingendolo come un eroe (si pensi a Claudiano) e chi vede in lui il culmine di una degenerazione cui era andato incontro l’Impero.
Paolo Orosio: i motivi dell’intolleranza verso i barbari
Lo storico Paolo Orosio, allievo di Sant’Agostino ad Ippona, nelle sue Storie contro i pagani, tracciando la storia dell’umanità dalle origini ai suoi giorni, ne delinea un profilo molto duro: Stilicone è accusato di cospirazione ai danni di Onorio, di complottare con i Goti per conquistare il soglio imperiale e stabilirvi il figlio. Doveva essere questa la fama del generale vandalo presso quei romani più conservatori e che non vedevano di buon occhio che il potere in Occidente fosse nelle sue mani. Tuttavia, le critiche di Orosio sono anche da spiegare in termini religiosi, in quanto generalmente i barbari erano sì cristiani, ma ariani, ovvero seguaci delle teorie del vescovo Ario, sconfessate dalla Chiesa di Roma e che negavano la consustanzialità di Padre, Figlio e Spirito Santo. Insomma, la difficile convivenza tra barbari e romani nell’esercito così come nell’amministrazione imperiale si spiegava anche in termini culturali e religiosi.
La fine di Stilicone
Ben presto, nonostante i successi ottenuti, Stilicone finì per entrare in urto, definitivamente, con la corte di Arcadio: nel 406 d. C., per evitare un conflitto civile e non inimicarsi Onorio, rimase indifferente all’ammutinamento di alcuni generali romani, che, accusando Stilicone di favorire le truppe barbare, massacrarono molti dei suoi più fedeli generali foederati. Abbandonato anche dai contingenti barbari, fu comunque condannato da Onorio, ormai sempre più sospettoso, e nel 408 d. C. venne ucciso in una chiesa di Ravenna, ove si era rifugiato.
L’Impero d’Occidente si macchiava di un grave suicidio, privandosi forse della possibilità di sopravvivere, nel solco dell’integrazione che, a Roma, era da sempre stata una prassi usuale: dopo la morte di Stilicone, infatti, le pretese dei Goti di Alarico presero il sopravvento e, invasa l’Italia, il re goto riuscì a saccheggiare Roma (410 d. C.) per la seconda volta nella storia, dopo quasi otto secoli.
Francesco Longobardi