Recensione del film Ammore e Malavita dei Manetti Bros, in concorso alla 74 mostra di Venezia e distribuito in Italia dal 5 ottobre 2017.
Dal cinque ottobre nelle sale: una storia di Ammore e Malavita
Di film sulla malavita ne abbiamo piene le tasche. Nelle più svariate accezioni di lingua, forma e fantasia, nelle più opposte visioni prospettiche (quella del poliziotto incorruttibile o corrotto che sia, quella della vittima o quella del malavitoso stesso, al quale si può finire per affezionarsi), dalle più distanti provenienze geografiche e culturali, dai più diversi stili registici, alle più romanzate e pittoresche sfumature umane e sociali sottolineate attraverso le differenti pieghe che le trame possono prendere a pretesto o a presupposto. In pratica, l’argomento non ci interessa più.
Soprattutto dopo Gomorra. Il lancio del libro è stato anche un rilancio dell’argomento e una tacita autorizzazione al suo abuso nelle varianti più scadenti possibili. Si è arrivati ad un punto in cui, di un prodotto teatrale, cinematografico o televisivo, la qualità è fattore secondario purchè ci sia una sparatoria e un bel discorso minatorio in un lessico da strada così misero e cafone da far impallidire i testi defilippiani.
E nell’ambito della produzione napoletana, è stato un delirio. Serie, film, diffusione di atteggiamenti comuni fra i giovani che sono diventati una tendenza da studio antropologico. Scarsi il valore semantico, il contenuto concettuale e il contesto di questa produzione complessiva ispirata alla “malavita”. Banali ai margini del ridicolo i dialoghi. Non sempre apprezzabile il pregio artistico degli interpreti, ma tale dato può essere riconducibile ad una voluta stilizzazione del personaggio da parte di registi e autori o forse, ad un fallito tentativo di una nuova rivoluzione neorealista. Nel complesso, un pacchetto scadente.
Il legame fra questo preambolo socio-artistico-culturale sulla produzione d’arte partenopea degli ultimi anni e il nuovo film dei Manetti bros (che tanto per la cronaca, sono di origini romane), Ammore e Malavita, è tenuto insieme da un sottile filo rosso che intreccia ma non aggroviglia il senso profondo dei sovra citati argomenti.
Dopo la presentazione della pellicola alla settantaquattresima edizione della mostra del cinema di Venezia (questo autunno), dal cinque ottobre 2017 viene distribuito nelle sale italiane Ammore e Malavita, per una produzione Madeleine, Manetti Bros e Rai Cinema.
Pare iniziare come una delle ormai comunissime solfe meridionali, con questi motociclisti “para-fighi” dai volti avvolti dal mistero di un casco tigrato che se ne vanno in giro a sparare a raffica senza sbagliare un colpo, corredati delle loro espressioni truci da bello, dannato e spietato.
Poi ci sono un boss (Carlo Buccirosso) con tutti i valori di un boss per il risultato della parodia di un boss; e una signora del boss, (Claudia Gerini, alla quale si deve un omaggio particolare per lo sforzo applicato nell’interpretazione di un personaggio fortemente connotato dai tratti più veracemente napoletani, nonostante lei nasca romana) che lo stereotipo comune vuole tutta agghindata d’oro e brillantini, curiosa cenerentola aderente ai sogni romantici di quante ragazzine affette da carenze culturali sognano il salto di qualità passando dal ruolo di “cammerera” a quello di “padrona” che riesce a farsi sposare dal tipo con l’espressione truce, il bello, dannato e spietato.
Nel cast, anche Raiz, Serena Rossi e Giampaolo Morelli, che si dimostra attore versatile ai limiti della riconoscibilità.
Condiscono il tutto una bella spolverata di omicidi a sangue freddo, violenza gratuita, armi, faide e contrabbandieri. Insomma, non manca nulla per l’ennesimo volgare ed inutile polpettone firmato “made in Naples”.
La salvifica differenza di Ammore e Malavita sta nel delicato equilibrio che amalgama gli appena elencati elementi.
La genialità dei Manetti è riposta nello spirito fortemente ironico con il quale hanno affrontato la forte iconografia che contraddistingue Napoli, salvaguardandola, certo, anzi, valorizzandola, ma non nella patetica maniera alla quale siamo abituati, che prevede l’esaltazione di tematiche che non andrebbero sopravvalutate: dal punto di vista dei simboli, il panorama partenopeo offre effettivamente molto. Ma ci sono cose che meritano di essere prese sul serio, e altre che non lo meritano. Questo lo hanno capito i Manetti, Marco e Antonio. Ci hanno fatto un film, che quasi certamente funzionerà. Se non propriamente perché tutto il pubblico avrà chiara la chiave satirica con la quale affrontare l’analisi critica dell’elaborato, funzionerà di certo perché la gente riderà; perché il prodotto, nel complesso, concentra un forte potenziale di divertimento, e tutto ciò che fa ridere, con sottigliezza o demenzialità, è sempre ben accetto.
Nello specifico, qual è un altro dei caratteri forti di questa città, incastonato fra il ridicolo e il simpatico, fardello e primato che ci trasciniamo in giro ormai da generazioni? Il cantante neomelodico. Ne abbiamo in esubero; quasi li potremmo vendere. Tutti quelli che nella vita non sanno fare niente, a Napoli o sparano o cantano. Shakeriamo con minuzia ed arguzia gli elementi, e ne esce una sorta di musical ballato e cantato sulle liriche di Nelson (giovane talento che ha vinto il Premio Pasinetti 2017 assegnato dall’SNGCI per le canzoni del film), che ha scritto per l’appunto quindici canzoni per questa pellicola (particolarmente simpatica la cover di What a feeling),adatte ad una storia di “malavita”, sottilmente ironica, dove i protagonisti sono fortemente caratterizzati, simpatici ma non ridicoli perché consapevoli di essere parodia del proprio ruolo (come, per esempio, Franco Ricciardi e Pino Mauro).
Tra ironia e risate sparse, un messaggio educativo portante non manca. Spoiler a parte, fra i vari obiettivi di Ammore e Malavita fa il suo timido capolino anche quello pulito e lineare di lasciare un messaggino etico-morale, di quelle romanticherie che poi in fin dei conti al pubblico piacciono quasi quanto i tipi belli e dannati che sparano con le sopracciglia aggrottate e lo sguardo contrito: i sentimenti sono più importanti di ogni cosa, l’amore vince su tutto, per amore si può cambiare vita, indole, continente, girare le spalle agli errori, migliorarsi, cominciare da capo. Il bene alla fine trionfa sul male, la vita può cambiare, non è mai detta l’ultima parola, il limite fra giusto e sbagliato è labile quasi quanto la relatività che lo determina e quando tutto sta per capitolare tragicamente, ci sono i piani alla 007. Quelli, non falliscono mai.
Ah: i cattivi, alla fine, pagano il conto.
Cambiano senso e acquistano un valore del tutto proprio che non si ferma all’inutilità del mortificare la scena gli effetti speciali alla James Bond o i rallenting di proiettili magicamente schivati e risultano apprezzabili i dettagli di particolari quali catene e manette che acquisiscono il valore simbolico di lacci d’amore.
Alla luce di tutto ciò, ritrova la sua dignità nell’ambito dello specifico senso del suo personaggio, che per l’appunto, va ben oltre l’apparente matrona di malavita, una Claudia Gerini che si lancia in spaccata sui mobili della cucina in leggings fluo e scarpe di cattivo gusto.
Bravi, i fratelli Manetti.
Ammor e Malavita – (trailer ufficiale)
Letizia Laezza