Dal cinematografo al cinema: dalla scienza all’arte
Se è vero che il cinematografo è ben altra cosa rispetto al cinema, sarà bene comprenderne il perché.
Si potrebbe riassumere il tutto in una figura: il regista.
Per essere più chiari: il cinematografo nei suoi primi anni di vita viene a giusta causa esplorato in profondità, passando dal ruolo semplice di archivio storico (riproduzione e conservazione di immagini reali) a quello di mezzo di espressione artistica. Questo passaggio è operato da una serie di figure che comprendono con questo nuovo mezzo cosa si può fare, e che possiamo definire registi, in quanto passano dall’essere semplici tecnici che girano una manovella in prossimità di un oggetto a diventare ideatori di un tale soggetto, di una tale rappresentazione, atmosfera, prospettiva, opinione.
Fra i primi, possiamo annoverare Meliès. Fu proverbialmente lui a trasformare il cinematografo in cinema, già alla fine dell’ottocento.
Meliès era uno showman, di mestiere faceva l’illusionista. Capì immediatamente che in quella scatola c’era il potere di gestire spazio, tempo, forme, immagini: come nei sogni, nella fantasia. Capire come farlo avrebbe trasformato il cinematografo da un’invenzione ad un vero spettacolo (di magia).
I suoi trucchetti erano semplici: bastava fermare la manovella, aggiungere un accorgimento e poi riprendere a girarla. Otteneva così che i personaggi giocassero a far volteggiare la propria testa, ad esempio. Tramite un rudimentale montaggio e soluzioni elementari come l’utilizzo del mascherino, il movimento seppur minimo della cinepresa per variare le dimensioni dell’oggetto o la sovraimpressione, Meliès ottenne i primi effetti speciali ed è oggi ricordato come l’ideatore del cinema fantascientifico/fantasy (il viaggio nella luna del 1902 ne è la più palese testimonianza).
Fu Edwin S.Porter a rendere il montaggio un mezzo di narrazione. Introdusse i campi medi e l’inquadratura unica, dove gli attori si muovevano nello spazio ripreso come fosse un palco, e soprattutto diede allo spettatore una posizione esterna alla narrazione.
Griffith, a quel punto, si rese conto che quella novità di tagliare le scene ed intersecarle permetteva di creare nello spettatore delle emozioni ben precise e veicolate: tramite il montaggio alternato, si poteva mostrare cosa accadeva in contemporanea in due luoghi diversi, generando uno stato di suspense in chi, inerme, stava a guardare.
Per comprendere tali fenomeni fino in fondo è necessario spogliarsi completamente di quanto a noi oggi sembra scontato.
Non era possibile, nel 1915, sapere cosa stesse combinando l’assassino di Lincoln nell’altra stanza, vederlo appropinquarsi ad ammazzarlo, e seguire simultaneamente la totale inconsapevolezza del presidente ( scena topica di nascita di una nazione). Il cinema poteva generare delle sensazioni nuove, proprie del mezzo, su cui bisognava puntare.
Ejzenstejn affinò la tecnica, garantendo ai sovietici il merito del montaggio, che, come si è visto, è figlio di un percorso collettivo e non di un singolo momento. Il regista Lettone si rese conto che tramite il montaggio, tramite un dettaglio, poteva far passare messaggi profondi, opinioni, stati d’animo, che non si limitavano alla storia narrata.
Acquisiscono valore le atmosfere, i colori, le ambientazioni, le musiche. Il cinema ne possedeva già allora, come oggi, dei veri e propri cataloghi adatti alle circostanze: tristezza, ansia, paura, gioia, amore, dolore.
Un’inquadratura può avere un linguaggio molto più immediato di intere pagine scritte: è forse questo il concetto sul quale lavorano le correnti avanguardistiche del novecento.
Colpisce pensare che nei pochi anni che dividono le due guerre mondiali si siano susseguiti tanti sconvolgenti movimenti; è questa la testimonianza di quanto fervore possedeva in auge il cinema.
Il cinema avanza coi tempi e li condiziona; ne è manifesto e insieme editore.
Dal futurismo, unico movimento pre-bellico nonché italiano, esposizione di una velocità che seguiva il ritmo dell’avanzamento tecnologico del paese, all’espressionismo, che si stacca dalla realtà concreta e la stilizza per esprimere un mondo tutto interiore, in maniera anche esplicita, tramite mezzi che palesano una falsità voluta, come case di cartone ed oggetti fittizi. L’impressionismo attraversa la stessa esperienza di esposizione di stati d’animo, ma tramite mezzi più realisti, in maniera più implicita. Il surrealismo è l’esempio portante del ruolo del cinema nella società: mezzo che risponde all’esigenza di portare fuori un disagio.
Dalì e Bunuel, in un chien andalou (1928) volevano raccontare l’asfissia di una società opprimente e proibizionista, nei tempi in cui il dottor Freud esplicitava finalmente quella soggiogazione alla sessualità propria dell’essere umano. In quel film non è importante concentrarsi a cercare la trama, ma aprirsi a recepire le sensazioni.
Quella dadaista è una corrente che non necessita di eccessive spiegazioni: fare arte nel rifiuto dell’arte, la contraddizione è palese. Non è questo che però il fulcro del suo valore nel cinema: Ballet mècanique (1924) film cubista del pittore Fernand Lèger, è una provocazione del regista: la musica è un loop, la ripetizione delle immagini è psichedelica, e l’intenzione originale è quella di permettere alle cose di parlare. Ciò che prima era muto, prende vita, tramite una commistione di mezzi che prima pareva pura magia!
Questo iter non vuole avere il senso di una vuota carrellata di fenomeni che fanno del cinema una “storia” da studiare, ma è interessante osservare come l’individuo ha giocato, scoperto, sperimentato questo mezzo fino a rendersi conto che possedeva dei poteri totalmente nuovi, un linguaggio capace di raccontare gli aspetti della vita che nella messa in lettere avrebbero perso il carattere astratto che ne rappresenta il più significativo aspetto.
Letizia Laezza