Indice dell'articolo
Il mito come legittimazione
Già nel III libro delle Georgiche si sente l’eco del mito di Enea, perché Virgilio afferma la volontà di cantare, in una futura opera, le gesta di Augusto, e di lodarlo a partire dagli antichi e illustri antenati della gens Iulia. L’intento laudativo si unisce così subito al racconto della preistoria di Roma, nella quale Virgilio dovrà saper calare quegli elementi dai quali far scaturire il futuro della casata augustea e della grandezza dell’Urbe.
Si tratta quindi, ancora una volta, di ripercorrere un antico mito, già noto e già dotato di un suo carico di esperienze e memorie, quello di Enea, di rifunzionalizzarlo in base alle nuove esigenze del poeta, al quale ora serve dar validità e statura eroica all’impero augusteo.
Enea, il troiano eletto dal fato
E’ in questo orizzonte politico-culturale che viene recuperata la figura di Enea. In Omero si tratta di un giovane troiano di nobile stirpe, e in Virgilio la sua natura aristocratica è esattamente proporzionale alla nobiltà d’animo dell’eroe, perché questa lo rende capace di tollerare miseria e dolori e obbedire strenuamente agli ordini del fato.
E’ proprio questo a calarci subito in una dimensione diversa dall’epica omerica, dove la lunga guerra per distruggere Troia divide gli animi e le volontà, porta Agamennone a rivendicare il suo potere offendendo Achille, e Achille a punire Agamennone abbandonando la battaglia. Qui non c’è tracotanza, non c’è prestigio da rivendicare, perché c’è l’umiltà di chi è stato eletto dal destino per compiere qualcosa di grande.
La pietas eroica
Gli stessi proemi omerici, che fanno di Achille l’eroe dell’ira funesta, e di Ulisse l’uomo dal duttile ingegno (che non disdegna scelleratezze e inganni), ci consentono di porre una distanza etica e morale con Virgilio, che chiama Enea al principio della sua opera insignem pietate virum.
E la pietas non è qualità del singolo, come la ménis achillea e la polytropìa ulissiaca, cioè non è caratteristica personale e soggettiva inerente al personaggio in sè, perché spalanca un vasto campo di significati, essendo la devozione che lega l’eroe alla famiglia, alla città e agli dei. La pietas è il cosiddetto “amore doveroso” che conduce Enea, attivamente e passivamente, perché il troiano agisce in linea con questo ideale, e perchè lo fa seguendo attentamente gli ordini, che arrivano dall’alto.
In questo senso, si riduce l’uomo-Enea per far posto all’eroe: Gian Biagio Conte vede questo dualismo realizzarsi soprattutto nel rapporto col tempo, perché l’esistenza di Enea è segnata da una cesura netta, che oppone da un lato, il passato, nel quale viveva da giovane troiano, in una città prospera e magnifica, padre di Ascanio, marito di Creusa, figlio del nobile Anchise; dall’altro, il futuro, che inizia nel momento in cui, presa Troia, svanita ogni speranza di una rinascita della patria distrutta, ad Enea è affidato il compito di fuggire, portar via i Penati, e fondare sulle coste italiche una nuova, gloriosa città.
La forza data dal dolore
Non c’è più Ulisse, il vincitore greco cui il fato si oppone nel suo tentativo di raggiungere l’amata Itaca, e quindi di ripristinare il rapporto col passato in maniera armoniosa, ma c’è ora una missione più ardua, quella di partire, portando con sé il dolore della patria arsa, abbandonata, finita, che può sopravvivere solo nella memoria, e renderlo seme della futura gloria di Roma.
E anche gli dei, ai quali obbedisce Enea, non sono più quelli omerici capricciosi e volubili, pronti a litigare sull’Olimpo e a schernirsi a vicenda: ora c’è il fato, imperscrutabile e giusto, per il quale ogni cosa può essere sacrificata.
Anche l’amore, che Enea incontrerà sul suo cammino, in quella tappa imprescindibile che è Cartagine, è un porto felice che Enea tocca, ma è costretto a lasciare: il IV libro presenta la tragica fine della passione tra Enea e Didone, la regina cartaginese che lo prega di restare, di non lasciarla, e perlomeno di ritardare la sua partenza. Ma l’eroe troiano, alle parole accorate e alle preghiere dolenti dell’appassionata amante, si mostra sordo: “un dio gli chiude gli imperturbabili orecchi”[1].
Ma se l’Enea-eroe è dotato di incrollabile fermezza, l’Enea-uomo oscilla, eppure “molto gemendo e con l’animo vacillante per il grande amore, tuttavia esegue i comandi degli dei”[2].
Troia come principio della gloria di Roma
In questo senso si realizza pienamente la pietas, come rinuncia sofferta e consapevole ai desideri e ai sogni di semplice uomo, nell’ottica di un progetto provvidenziale più ampio. Enea non è l’eroe acheo, che abbandona la patria per distruggere la terra iliaca, ma è colui che parte, dolente, per costruire; colui che non affronta la guerra mosso dall’ideale aristocratico dell’aidòs omerico, ma la affronta come una tappa necessaria del suo viaggio verso la rifondazione della stirpe troiana.
Troia è principio, e non fine di questo poema, perché meta e conclusione è invece Roma, culmine della storia di Enea, che in sé presuppone un proseguimento del racconto, un cammino che arriva alla contemporaneità, a fare di Romolo il diretto antenato di Augusto, e di Augusto, nuovo imperatore di Roma, colui che è destinato a riportare nel Lazio l’età dell’oro.
[1] Virgilio, Eneide, Libro IV, v.440, Mondadori, 2015
[2] Id., vv.395-6
Miriam Orfitelli