Giuseppe Verdi: “Ora che siamo uniti, siamo rovinati”. Verdi ha veramente pensato e scritto ciò. Non si tratta di smontare il mito del Verdi risorgimentale (anche perché l’Italia l’hanno unita anche attraverso la sua musica), ma bisogna comprendere le ragioni di queste parole.
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Verdi possidente. La crisi economica.
Il Maestro viene spesso ricordato come uno dei Padri della Patria, e viene talvolta inserito in un elenco di Padri Italiani che poco hanno a che vedere con il Maestro, pur essendo stati delle menti eccelse. E spesso Verdi viene ricordato anche come colui che operò affinché l’Italia diventasse un unico regno. Ma si pensi alla lettera che il Maestro scrisse nel 1867 all’onorevole Opprandino Arrivabene, suo amico fedele, in cui affermava testuali parole:
“Ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati”
Verdi, da proprietario terriero, ma prima ancora da contadino, si lamentava, in questa lettera, per le tasse sul sale e sul macinato – che costituivano il 65% di tutte le entrare del Regno – applicate dagli uomini di Stato per raggiungere il pareggio di bilancio (obiettivo del governo di Destra). Parliamo di una Italia appena unita con una grave crisi economica, abitata da circa 17 milioni di analfabeti, che corrispondevano al 78% della popolazione italiana. E Verdi vedeva tutto questo e, ripensando al sogno di una felice e fiorente Repubblica, ne soffriva.
Il sogno di una Repubblica.
Verdi fu attivo politicamente solo durante i Moti Rivoluzionari del 1848 quando scrisse in una lettera all’amico e librettista Francesco Maria Piave:
“Sì, sì ancora pochi anni forse pochi mesi e l’Italia sarà libera, una, repubblicana.”
in cui dichiarava esplicitamente di desiderare che gli Italiani del 1848 ascoltassero solo una musica, quella del cannone. Quindi Verdi sognava che l’Italia fosse una ma repubblicana.
On. Verdi Giuseppe, “senza avervi nessuna attitudine”.
Il Maestro fu attivo politicamente anche dopo l’Unificazione Italiana, poiché divenne deputato del Regno, ma solo per accontentare Cavour che insisteva tanto:
“Ebbene Sig.r Conte, accetto; ma alla condizione che dopo qualche mese io darò la mia dimissione”.
Verdi, però, fu costretto a resistere ancora per qualche anno:
“ora per una cosa, ora per l’altra io sono ancora deputato contro ogni mio desiderio ed ogni mio gusto…”.
Ma nel settembre del 1865:
“Ho declinato d’essere Deputato apertamente e chiaramente”.
Oh mia “Italia” sì bella e perduta!
Ma spesso si pensa che Giuseppe Verdi abbia fatto musica, in un determinato periodo storico del nostro Paese, solo per fare politica. Ma sono stati gli Italiani oppressi a riconoscere in determinati cori di opere come Nabucco o I Lombardi alla prima crociata “qualcosa di sé stessi: dei canti di prigionia”. (G. Baldini, Abitare la battaglia, 1970). Si pensi al celebre coro del Va’, pensiero del Nabucco, un coro di schiavi ebrei piangenti e tratti in schiavitù dal Re di Babilonia in cui si riconobbero gli Italiani soggiogati dalla dominazione austriaca. Lo stesso accadde per il coro dei Lombardi ovvero O signor, che dal tetto natio in cui gli esuli lombardi ripensano ai limpidi ruscelletti e ai prati della loro patria, nell’afa del deserto di Gerusalemme.
Giuseppe Verdi: “… e decisi di non comporre mai più!”.
Verdi non scrive quindi per fare politica. Infatti, dopo la morte prematura dei figlioletti e dopo la morte della prima moglie Margherita Barezzi, seguita poi tre mesi dopo anche dal fiasco clamoroso dell’opera buffa Un giorno di regno del 1840, Verdi:
“coll’animo straziato dalle sventure domestiche, esacerbato dall’insuccesso del mio lavoro, mi persuasi che dall’arte avrei invano aspettato consolazioni, e decisi di non comporre mai più!…”.
(amarissimo e toccante passo autobiografico tratto dalla lettera del 1879 del Maestro a Giulio Ricordi).
Genesi di Nabucco.
Giuseppe Verdi decise quindi “di non comporre mai più” e decise successivamente di accettare di mettere in musica il Nabucco solo perché persuaso dall’impresario del Teatro alla Scala di Milano, Bartolomeo Merelli, che gli consegnò il libretto di Temistocle Solera con forza:
“Rincasai e con gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomisi ritto in piedi davanti. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto: senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: Va’, pensiero, sull’ali dorate.”
(sempre dalla lettera sopracitata).
“… un giorno un verso, un giorno l’altro”.
Giuseppe Verdi quindi rimane colpito dalla grandiosità dei versi del libretto:
“tanto più che erano quasi una parafrasi della Bibbia, nella cui lettura mi dilettavo sempre”;
e ne rimane così colpito da iniziare di nuovo a comporre. Per questo motivo, e non per altri. Attribuire inoltre a Verdi di questo periodo una furbizia nel voler scrivere un’opera con spunti patriottici solo per fare politica e per aver successo è davvero assurdo, tanto più che il povero Verdi aveva altro per la testa: pensava ai suoi due bambini perduti, alla moglie che venne a mancare troppo presto, all’insuccesso di quell’opera buffa che dovette comporre “in mezzo a queste angosce terribili” che di buffo non avevano nulla.
E ricominciò a comporre, così… per caso:
“un giorno un verso, un giorno l’altro, una volta una nota, un’altra volta una frase… a poco a poco l’opera fu composta.”