Quando avviene una separazione, la sofferenza è quasi inevitabile. Chi sperimenta la rottura di un legame (di amore, di amicizia, di fratellanza) si ritrova catapultato in una condizione di lutto non abitudinaria, estranea, che spesso si rivela più difficile del previsto da affrontare. In psicologia, la questione della perdita attira costantemente l’attenzione di numerosi studiosi, poiché’ è da sempre considerata una delle cause maggiori di reazioni negative della nostra psiche, dalla semplice tristezza alla vera e propria depressione.
Nel 1915 Freud si dedicò alla stesura del saggio “Lutto e melanconia”, considerato uno dei più significativi del suo intero corpus teorico: nonostante la data di pubblicazione fin troppo lontana da noi (fu rilasciato nel 1917, esattamente 100 anni fa!) lo scritto è più attuale che mai.
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Non siamo mai così privi di difese, come nel momento in cui amiamo.
Secondo Freud l’affetto depressivo ha come condizione la perdita dell’oggetto, ma non di uno qualunque, bensì di un oggetto sovrainvestito narcisisticamente, la cui perdita comporterebbe un’emorragia libidica, uno svuotamento di senso del mondo intero.
Cosa significa “sovrainvestire narcisisticamente”? Quando amiamo una persona, ci rendiamo deboli, poiché’ distogliamo dal nostro ego una contingente quota di attenzione (potremmo definirla “amor proprio”) per riversarla su qualcun altro, siamo allo scoperto perché’ barattiamo un po’ di sano egocentrismo per amore, con la speranza di essere ricambiati e correndo il rischio che questo non accada.
Nel momento in cui veniamo amati dall’altro, l’equilibrio viene ripristinato, poiché’ l’amore che diamo ci ritorna indietro, e non siamo più in difetto: non abbiamo paura di consegnare all’altro i nostri lati più nascosti perché’ siamo sicuri che saprà custodirli. Con la perdita di quest’oggetto si perde la funzione di ritorno narcisistico che era garantita al soggetto: in questo caso, quindi, perdere l’oggetto significa anche perdersi. Perdere l’oggetto d’amore, quindi, comporta un distacco netto, un vero e proprio lutto.
Il lutto e la melanconia: la linea sottile tra la normalità e la patologia
Il lutto è un lavoro necessario che comporta memoria, dolore e tempo, ed è strettamente correlato all’accettazione della realtà dei fatti e a un conseguente superamento della sofferenza. Spesso, però, si può incappare in un giro più largo, portandoci su una strada più lunga del previsto e più faticosa da affrontare: quella della melanconia. E’ una condizione analoga a quella del lutto, ma caratterizzata da un avvilimento del sentimento di se’, da una continua autoflagellazione che sfocia in deliri di inferiorità, rifiuto del sonno e del nutrimento, ricerca continua di commiserazione e mancanza di vergogna nel riferire agli altri quanto ci si senta indegni, moralmente spregevoli, cattivi.
L’esperienza depressiva della melanconia ci confronta con un vuoto nel mondo, e sorge nella constatazione che niente è più come prima: tutto si è svuotato di senso. L’Io si auto mortifica, si rende colpevole della perdita, non si domanda “perché’ mi hai lasciato?” ma “che cosa hai fatto per farti lasciare?”. L’oggetto d’amore non viene mai cancellato del tutto, non viene simbolizzato ma trattenuto: una pertinace adesione ad esso trionfa sul soggetto, lo invade, impedendogli di legarsi ad altri oggetti, di svincolarsi da quella emorragia libidica che non gli permette di far fuoriuscire amore.
E’ molto comune la sensazione di non riuscire a provare più interesse per il mondo che ci circonda: ci si sente apatici, privi di stimoli, la quotidianità si trasforma in monotonia e non vi è alcuna predisposizione alla svolta. Il nostro amato si è preso tutto e l’ha portato via con se’.
La mania e la negazione della perdita dell’oggetto d’amore
Un’alternativa all’affetto depressivo è quella che Freud definisce “mania“. In questo caso specifico, la perdita non viene ne’ compianta ne’ superata poiché’ viene negata in partenza: l’Io viene pervaso da un senso di trionfo e di euforia e attua una continua sostituzione compulsiva dell’oggetto, si “getta come un affamato alla ricerca di nuovi investimenti oggettuali”, spaziando da una distrazione all’altra per sanare la ferita narcisistica provocatagli.
La mania è un processo che al giorno d’oggi potremmo definire come tecnica del “chiodo schiaccia chiodo”, senza dubbio afinalistica, ma considerata da alcuni unico modo per andare avanti. Ma il maniaco non dimenticherà mai del tutto l’amore perduto: vive di momenti, di edonismo frivolo e inconsistente, riempie le proprie giornate di impegni ed incontri illudendosi di aver voltato pagina repentinamente. Spesso, però, sono proprio quelle le persone che soffrono di più per la mancanza dell’altro.
Il disgelo: quando il lavoro del lutto è terminato
Ritornando al discorso del lutto e della malinconia, c’è da puntualizzare che queste condizioni non sono durature, bensì momentanee entrambe, aventi tempi e dinamiche diverse, ma superabili. Quando, allora, il lavoro del lutto si realizza, può dirsi compiuto? Quando esso da’ luogo ad una liberazione della libido dai legami che la vincolavano all’oggetto perduto al fine di reinvestirsi nel mondo. “Il vento del disgelo”, di Nietzschiana memoria, scioglie finalmente i ghiacci dell’inverno per lasciar spazio alla primavera, alla stagione della rinascita.
Dopo la sofferenza e la convalescenza possiamo dimenticarci finalmente del nostro oggetto perduto e respirare una boccata d’aria fresca: la ferita è stata curata e di essa rimane solo una cicatrice, segno di un’esperienza negativa ma necessaria per la crescita individuale. Come le fenici, risorgiamo dalle ceneri, scalfiti, ma fortificati. E siamo pronti ad amare di nuovo.
Marta Giordano
Bibliografia: Freud S., Lutto e Melanconia (1917), Torino, Bollati Bolinghieri, 2014
Fonti: La melanconia freudiana
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