Questo articolo affronta la musica jazz degli anni 2000 negli Stati Uniti, nonostante le stesse influenze siano riscontrabili anche in Europa (Yussef Kamaal, Ezra Collective e altri). Vediamo come, al di là di differenze specifiche, ci sia in realtà una forte coerenza stilistica tra i vari artisti, adatta a portare avanti una nuova fase del jazz.
Indice dell'articolo
La musica Jazz negli anni 2000: la sua evoluzione
L’evoluzione dell’arte è caratterizzata da un continuo rinnovo della tradizione precedente: questo fenomeno è facilmente riconoscibile nel jazz e nella sua impegnata ricerca di nuove sonorità, tecniche e colori. Questo genere, più tra tutti, è sempre stato sottoposto a una trasformazione continua, ingaggiando una battaglia con se stesso, garantendogli la vita eterna al prezzo di una mancanza di una forma ben definita.
Oggi però quando si sente la parola jazz ci si spaventa un po’ e la si collega a un genere ormai morente, che riesce a sopravvive solo tra gli intellettuali e i musicisti. Il jazz anni ’20, consumato come se fosse pop o il jazz di Miles Davis che ha trasportato in altri universi intere generazioni sembra essere totalmente perso. I locali jazz non sono più affollati come un tempo, i musicisti a volte vengono persino visti male. Ma cosa ha portato a questo declino?
Il jazz negli ultimi decenni
Dopo un fruttuoso incontro con il rock che ha portato alla nascita della fusion (qua un articolo su uno degli album più importanti del genere), la musica jazz, negli ultimi anni dell’80 fino al jazz anni 2000, entra in una fase a mio avviso un po’ sterile: quando le precedenti rivoluzioni iniziano a canonizzarsi, vediamo il sorgere di una serie di sperimentazioni che daranno vita a sottogeneri come ad esempio l’acid jazz, nu jazz, punk jazz, avant-garde che contribuiscono ad allargare il quadro, ma falliscono nel dargli più nitidezza. Non bisogna però pensare che in questi anni manchino grandi artisti o album interessanti, anzi, la lista è lunga.
La sterilità piuttosto è dovuta alla mancanza del jazz di crearsi una nuova identità, rimanendo spesso attaccato a stilemi del passato: alcune avanguardie si incastrano in se stesse, vivendo di sfarzi passati; gli artisti si arricchiscono di barocchismi e virtuosismi confondendoli a volte con la ricerca estetica; molti musicisti si dedicano all’evoluzione della tecnica dello strumento, ponendo la musica in secondo piano. Il genere perde l’energia e vitalità che lo ha caratterizzato negli decenni precedenti, per inerpicarsi su sentieri che lo conducono verso una tecnicizzazione e complicazione dei temi, che comportano una intellettualizzazione e una concezione più elitaria del genere.
Il jazz, l’hip hop e la musica afro-americana
Ma in una tale vastità di sperimentazioni e sottogeneri, qualcuno di questi ha centrato il segno, anticipando i tempi: il rap jazz. L’interazione tra questi generi affonda le sue radici già negli anni ’90 e si è sempre dimostrata interessante: nel 1990 A Tribe Called Quest pubblicano People’s Instinctive Travels and the Paths of Rhythms dove il beat è composto da un’amalgama di ritmi tipici hip-hop e linee melodiche jazz in sottofondo; a contribuire si aggiungono gli esperimenti di Miles Davis nell’ultima fase della sua vita, come Doo Bop (1992) dove le melodie della sua tromba accompagnate da progressioni jazz si inerpicano tra i beat; Jazzmatazz Vol. 1 di Guru è uno dei primi album ad aver fuso un complesso jazz live con produzioni hip-hop.
A cavallo tra gli anni ’90 e i primi 2000 anche Erykah Badu inizia a esplorare questa interazione tra i due generi, seppur molto più improntata sull’hip hop, ponendosi come uno dei pilastri del neo-soul. Questa esplorazione oggi culmina con To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar, dove avviene il vero e proprio sposalizio tra i due generi, impreziosito da influenze proveniente da tutto il repertorio di musica afroamericana. For Free è un vero e proprio gioiello di sperimentazione, dove una conversazione tra cantato e rap si poggia su un eccentrico ed energico accompagnamento jazz.
La rinascita del jazz negli anni 2000
Ed è con questi presupposti che le nuove scintille del jazz si fanno avanti. Il jazz inizia sempre di più a legarsi con questa cultura undergound e progressive hip-hop. Un grande cambiamento si individua nello stile della batteria: lo stile dei batteristi jazz più tradizionali è più dolce e fluido ed è caratterizzato dallo swing (il tiin ti-tin del piatto che accompagna tutti i classici, qui un esempio), un accompagnamento quieto il tempo del brano non è definito da cassa e rullante, quello che è definito groove e che caratterizza quasi tutti gli altri generi, comprese queste nuove modalità jazz. La batteria qui è più energica, massiccia, sottoline la sua presenza con molti stacchi (o anche fill, sono dei fraseggi, variazioni), gioca con contrasti di volume e esplora nuove sonorità.
In sostanza, il groove si intreccia allo swing. Questo specifico cambiamento è sintomo di un cambiamento più ampio quale la confluenza nel jazz di generi più pop, spesso appartenenti alla cultura afroamericana, che iniziano ad assumerne la struttura, la grammatica e la componente di improvvisazione. Con questo procedimento si auspica una maggiore comprensibilità del jazz, una modernizzazione che vuole strappare il jazz dal salotto intellettuale borghese in cui si era rifugiato per restituirlo alla gente. Questi cambiamenti spesso si affiancano alla volontà di ritrovare l’emotività nelle note del jazz, un’emotività che è stata rapita dal virtuosismo.
Kamasi Washington e l’epicità del jazz
Parlando di apertura alle masse del jazz è impossibile non citare Kamasi Washington. Con anni di studio che si sono conclusi con una laurea in etnomusicologia e una lunga carriera che lo ha portato a collaborare con Lauryn Hill, Herbie Hancock, Snoop Dogg e Wayne Shorter. Con un album (The Epic, 2015) ed un EP (Harmony of Difference, 2017, qui il singolo) è riuscito ad aprire il jazz alle masse, suonando in locali e festival, contribuendo ampiamente anche a To Pimp A Butterfly. Una delle sue caratteristiche è la presenza di due batterie, che enfatizza il passaggio da groove a swing, e l’uso di voci o cori che seguono le linee melodiche dei fiati. Il suo punto di forza sta in un dialogo continuo tra tradizione e innovazione, una canonizzazione delle esplorazioni precedenti colorata da influenze di ogni tipo: tra le sue fonti di ispirazione il videogioco Street Fighter, l’impressionismo, la musica e la cultura africana, Coltrane e Stravisnky.
Ma Kamasi Washington non sarebbe mai diventato quello che è se non fosse cresciuto e lavorasse al fianco di musicisti quali Kendrick Lamar, Flying Lotus, Thundercat e il collettivo di cui egli stesso fa parte che lo accompagna in tour e in studio: i West Coast Get Down (qui eseguono un brano di Miles Mosley e qui uno di Washington). Un’orchestra jazz che riesce ad assecondare le istanze stilistiche di ognuno dei suoi componenti, dimostrando un’incredibile versatilità. Tutti cresciuti nei sobborghi di L.A. contribuiscono nella definizione di un nuovo movimento culturale definito uno stile unitario, più che da un unico genere.
Oltre loro troviamo anche Terrace Martin, produttore e polistrumentista (uno dei principali produttori tra l’altro di To Pimp a Butterfly) e altro amico di infanzia di Kamasi. Il suo album Velvet Portraits (2016) è un altro ottimo esempio della volontà di fondere insieme i due generi, caratterizzato da un’atmosfera estiva e melanconica.
Christian Scott aTunde Adjuah e la Stretch Music
Questi esperimenti non sono stati colti solo dal gruppo di Los Angeles. Un altro musicista molto suscettibile a queste esplorazioni è Christian Scott. Figlio di musicisti e laureato al Berklee College of Music, lavora e vive a New Orleans, luogo di nascita del jazz. Il suo album di debutto Rewind That (2006) è stato nominato a un Grammy. Definito dalla critica un “innovatore del jazz”, è conosciuto per la sua linea di trombe su misura e per la sua inconsueta tecnica esecutiva: il suono della tromba nasce dall’emissione di aria (whisper technique), più che dalla vibrazione delle labbra, come da tradizione.
Scott definisce la sua musica stretch music: una musica che, come un elastico, si espande, si allunga e allarga tra i generi, le forme e le sonorità. Lui stesso la definisce:”Una versione musicale del cubismo […] Un tentativo violento di togliere all’ascoltatore ogni incertezza di significato o di intenzione e stimolare una lettura del sentimento espresso più attenta”. Nonostante la sua maggiore difficoltà d’ascolto rispetto alla musica di Kamasi, Christian Scott sembra aver colto comunque il segno: riappropria il jazz di una componente emotiva che si è quasi persa, da esprimere attraverso l’analisi e il dialogo. Per i più coraggiosi, qui il manifesto.
Un altro esempio di stretch music, anche se caratterizzato da sonorità più soul, è il ventiquattrenne Braxton Cook, sassofonista di Scott. Il suo album d’esordio Somewhere in Between (2016) gravita intorno la tematica dell’amore. Un’incredibile miscela di personalità e sperimentazione, che altalena tra le sue influenze (il motown, soul e Stevie Wonder) e i suoi studi jazz.
L’hip hop jazz di Robert Glasper
Il pianista e produttore discografico Robert Glasper, seppur meno inquadrato nel jazz rispetto ai precedenti, è comunque una delle figure più importanti in questi anni. Acclamato dalla critica, la sua opera mostra una definita visione del jazz che si libera di ogni limite:”Il jazz è così, è uno state of mind, è una filosofia. Penso che sia un genere unico, che raccoglie tante variazioni […] Non puoi incasellarlo, può prendere qualsiasi direzione». E la sua musica ne è la dimostrazione perfetta: la sua tastiera e le sue sonorità spaziano dal neo-soul all’RnB, tutto delineato da uno splendido gusto jazz. Il suo album Everything is Beautiful dove rielabora alcuni brani di Miles Davis (qui un brano tra hip-hop, neo-soul, bossa nova e jazz) ne è l’esempio lampante.
La sua carriera, iniziata nel 2003 dopo aver terminato gli studi alla New York University, è una delle più interessanti e lo ha portato a sei candidature ai Grammy, di cui tre vinti, e a collaborare con nomi come Kanye West, Mos Def, Norah Jones e Jay Z. Una delle più recenti collaborazioni, piacevole ma non straordinaria testimonia però l’interazione tra questi diversi artisti e la comune volontà di portare avanti questo genere, ed è con i Pollyseeds, “presentati” da Terrace Martin, dove spicca anche il contributo di Kamasi Washington.
Abbiamo avuto modo di ascoltare cosa accomuna questi movimenti, che cerco di racchiudere in artisti, e di come contribuiscano al rinnovamento e alla creazione di una nuova faccia del jazz. I più tradizionalisti storceranno un po’ l’occhio, ma non si può negare il fascino di questa nuova corrente e dell’inesauribile creatività dalla quale è alimentata. E siamo solo all’inizio.
Julian Dylan Foster