La figura dell’attore fra il cinema muto e sonoro

L’evoluzione dell’ attore nel passaggio fra il cinema muto e il cinema sonoro

Secondo quanto appurato negli articoli precedenti relativi a questo viaggio attraverso la storia del cinema e dell’ attore, è ormai chiaro che la loro costituzione non è stata frutto di un fuoco d’artificio esploso improvvisamente.

Il cinema è sbocciato lentamente, scoprendo se stesso e le sue capacità.

In base a questo processo, si definisce anche la figura dell’attore professionista, che inizialmente era una qualsiasi persona ripresa dalla cinepresa, o, nella migliore delle ipotesi, un attore teatrale.

Quando il cinema inizia ad impostare i suoi film su tempi più lunghi e narrazioni precise, serve anche qualcuno che le sappia interpretare: l’attore.

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Hollywood, 1914

Già nel 1914 nasce Hollywood; va da se che con lei cresce il divo.

L’attore divo non aveva bisogno di parlare: secondo teorie fiosognomiche e fisionomiche rinvigorite dal cinema muto, gli bastava essere bello, e i suoi tratti estetici avrebbero definito il suo ruolo e la sua funzione.

Lo schermo gli forniva notorietà; questa assicurava la vendita dei biglietti e quindi un rientro economico alle produzioni che avevano investito per rendere celebre la sua immagine. Quell’immagine doveva rendere l’attore amabile, invidiabile, imitabile: una elementare tecnica di marketing, che fin dall’inizio funzionò efficacemente.

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Rodolfo Valentino

Pensare che quando la scatola magica fu scoperta, non si sapeva ancora cosa metterci dentro. E poi, non ci volle molto a rendere l’attore un divo.  Adorato, glorificato, sognato: divinità astratta, immagine dello schermo, commistione dei suoi personaggi, piuttosto che essere umano. Responsabilità non indifferente; un nuovo sistema era stato inventato: si chiamava star system.

Il problema, per la prima generazione “dell’ attore del cinema”, arrivò quando il cinema si rese conto che poteva parlare: nel 1927 Alan Crosland propose il cantante jazz, il primo film sonoro.

Macchina fra le macchine, era stata muta per trent’anni, eppure pareva che nessuno se ne accorgesse.

Macchina pensatrice, pensa al posto dell’uomo, rispondendo alla sua esigenza di relax dopo una giornata di lavoro. Propone un argomento, lo elabora secondo un punto di vista, trova i mezzi per farlo arrivare in una data maniera, bada bene all’intrattenimento, a non annoiare, cura la forma, l’eleganza, l’estetica, l’innovazione, poi propone allo spettatore un pensiero già pensato, pronto ad essere inglobato.

Il suo silenzio non era mai pesato, anche perché  non si trattava poi di un assoluto silenzio: didascalie, musiche, labiale, primi piani o inquadrature particolari; l’attore di muto aveva sviluppato delle tecniche peculiari per farsi capire, per riflettere sul proprio volto, durante i dialoghi, le battute dell’altro, di modo che fosse sempre chiaro cosa i personaggi si stessero dicendo; sembrava di sentirle, le parole, al punto che si riusciva a dare peso anche all’effettivo momento di silenzio.

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il cantante jazz

Perché, allora, dopo trent’anni il cinema ha avuto improvvisamente bisogno di far parlare l’attore?

Macchina fra le macchine, come detto, il cinema era in continua sperimentazione tecnologica oltre che artistica. Il potenziale del colore come quello del vocale era stato previsto da sempre. Ma economicamente non era conveniente partorire il prototipo fin dall’inizio già completo; in primis perché il peso dei costi avrebbe schiacciato l’idea prima che riuscisse a spiccare il volo, e in secondo luogo perché non ci sarebbero state più novità da aggiungere quando effettivamente il pubblico si sarebbe abituato al prodotto.

Infatti, non prima di altri venti anni il cinema ha sciolto le briglie ad un’altra novità ormai da decenni sperimentata, quella del colore: anche perché non si trattava propriamente di bianco e nero, che avrebbe stancato molto prima, ma di scale di grigi che non lasciavano grigia la scena.

Intanto, il passaggio al sonoro fu la rovina dell’attore di cinema muto: basti pensare a quanti divi del muto non seppero o non vollero evolversi, finendo per bruciare la loro carriera nella convinzione che l’audio stesse decretando la fine della vera espressione.

Due interessanti film raccontano egregiamente questo forte disagio: Sunset Boulevard (1950) di Billy Wilder e The Artist (2011) di Hazanavicius.

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Lydia Borelli

Raccontare senza parlare li aveva resi grandi, dimostrandone il notevole talento: Rodolfo Valentino, Buster Keaton, Lillian Gish, Lyda Borelli e molti altri, inventori di generi e stili propri.

Ma di fronte ad un altro tipo di cinema, dove la narrazione, le tecniche, l’espressione, il linguaggio, tutto era diverso, avevano ceduto.  Se il fenomeno del divismo lo avevano inventato loro, le star della prima generazione dell’attore del cinema, non avrebbero resistito alla seconda.

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Charlie Chaplin

Ci furono però anche quelli in grado di arrampicarsi sulle liane del cambiamento senza cadere nel baratro; pensiamo a Charlie Chaplin: inventa praticamente un genere, affina uno stile, trova un modo di esprimersi con un mezzo nuovo che funziona, genera un personaggio riconoscibile e perfettamente in grado di farsi comprendere nel silenzio che non è mutismo, provoca affezione, diventa parte del popolo e voce della sua epoca nei panni di una sorta di ironico clochard a disagio con i tempi dai quali non si lascia però vincere, e quando questo abnorme lavoro ha reso celebre l’attore, di cui nessuno ricorda neanche più il nome, in qualità di Charlie Chaplin, quando è ormai lui il divo, qualcosa di altro da se stesso, che sembra avere vita propria, una sua storia, un percorso, allora cambiano i tempi, subentra il sonoro, e ancora una volta Charlie Chaplin non si fa sopprimere dall’avanzare delle tecnologie che sembrano perseguitarlo. Salta fuori che Sir Charles Spencer è un attore, e che resiste: si vota a sonoro e lo fa con classe: basta guardare il grande dittatore (1940) per riconoscere un attore che ha fatto storia.

Letizia Laezza