A distanza di quasi cinquant’anni si torna a parlare di un pilastro del manga, Devilman di Go Nagai. Devilman – Crybaby, serie tv in dieci episodi targata Netflix, vede la collaborazione di due grandi nomi dell’animazione giapponese. Alla regia abbiamo infatti Masaaki Yuasa (The Tatami Galaxy, Ping pong) e alla sceneggiatura Ichirō Ōkouchi (Planetes, Code Geass, Berserk: The Golden Age Trilogy). Sapientemente riadattata ai tempi moderni, la storia di Akira Fudo, come tutti i classici, non smette di colpire il pubblico.
Le origini del mito
Ripercorriamo brevemente la cronologia legata a Devilman. Il manga uscì nel 1972, firmato da un non ancora famosissimo Go Nagai. Sarà infatti proprio questa affascinante storia a lanciarlo verso il successo. Caratterizzata da tematiche e situazioni dure da digerire e da una violenza visiva notevole, Devilman ben si inscrive nel clima di contestazione dell’epoca. Proprio i contenuti espliciti e le incessanti critiche dei genitori verso i manga portarono alla produzione di una serie tv eterogenea rispetto al fumetto originale.
Ripulito di eventi e personaggi dai risvolti ritenuti inadatti per i bambini, ebbe tuttavia un notevole successo. Nonostante la si possa definire una trasposizione scadente, spianò infatti la strada ad altre serie di successo di Nagai, una fra tutte Mazinga.
Un secondo tentativo fu fatto anni dopo. Due OAV, La genesi e L’arpia Silen, rispettivamente dell’87 e del ‘90, ripercorrono fedelmente gli eventi del manga, ma sono orfani di una vera e propria conclusione. Amon: L’apocalisse di Devilman, uscito nel 2000, non riuscì infatti a chiudere dignitosamente la saga, slegandosi dalla struttura del manga. Vengono piuttosto accolti elementi dall’allora in corso Amon: The Dark Side of Devilman, spin-off volto ad espandere le fasi conclusive dell’opera del ’72. Benché opera dello stesso Nagai, aggiunse elementi superflui piuttosto che arricchire la serie madre. Che Crybaby ne ignori i contenuti non può che far piacere.
Un vecchio, nuovo Devilman
Pur rimaneggiando e ammodernando l’intreccio originale, Devilman – Crybaby ha il pregio di attenersi quasi del tutto all’opera di Nagai. Cellulari, rap free-style, computer e internet, ma rimane il sapore eccentrico e cruento del manga. I due liceali Akira Fudo e Ryo Asuka scoprono l’esistenza dei demoni e decidono di sacrificarsi per eliminarli e salvare la razza umana. Da tale decisione nasce Devilman, l’unione tra il demone Amon e il giovane Akira, ovvero un possente diavolo con un cuore ancora umano.
L’utilizzo di uno stile minimal, caratteristico di Yuasa, ben si sposa con la materia narrata. L’utilizzo di un tratto non sempre definito e di animazioni fluide, a tratti psichedeliche, è un ottimo strumento per rappresentare i tratti primordiali e irrazionali dell’umanità, quali il sesso, la violenza, il terrore. In questa travolgente spirale emotiva la colonna sonora quasi del tutto elettronica è una scelta ovvia, nonché rimando ai moderni santuari dell’irrazionalità e della perdita del sé.
La carica espressiva è così forte da poter dire che in alcuni punti si riesce a superare l’opera originale. È il caso del quarto e dell’ottavo episodio, dove i legami familiari fanno da spola a scene davvero struggenti. In particolare cito quella che vede protagonista il padre di Miki, forse ispirata ad un’ugualmente drammatica scena del film Seven.
Non mancano però alcuni rilievi negativi. C’è da chiedersi come mai lo sceneggiatore abbia rinunciato al solido background costruito per Ryo nel manga. Se in quel caso infatti era il padre reso folle dalle sue ricerche sui demoni a innescare gli eventi, qui si opta per una scialba premessa, che non giustifica in alcun modo le gesta del personaggio fino all’ultimo episodio, o quasi. Altrettanto poco solidi e al contempo stucchevoli sono gli eventi del nono episodio. Da una parte, le condizioni per cui Devilman si trova lontano da casa Makimura in un momento cruciale appaiono aleatorie. Dall’altra, l’invito di Miki all’empatia ed all’amore, divulgato tramite social-network, è esempio di un sentimentalismo a buon mercato da cui la serie riesce in qualsiasi altra occasione a smarcarsi.
Nella versione italiana il doppiaggio, per quanto buono, esibisce a volte toni impostati proprio nelle scene di massima tensione e si dimostra, come spesso accade, inferiore al corrispettivo giapponese.
Il demone piangente
L’aspetto tecnico e la riproposizione della trama originale, anche nei suoi risvolti più crudi, non esauriscono gli aspetti positivi. In un’epoca di mania compulsiva del remake e del reboot, Devilman – Crybaby compie la difficile operazione di tradurre un classico d’altri tempi in chiave moderna. Il senso del manga, seppur non privo di rimandi alla sensibilità e al rispetto per la vita, è racchiuso in una delle battute finali di Satana, ovvero che il più forte non dovrebbe sentirsi in diritto di prevaricare il più debole: senso che chiaramente si inscrive in un drammatico dopoguerra di cui tutt’ora il Giappone porta le cicatrici.
Diversamente, l’anime vuole scavare più a fondo nelle capacità emotive dei singoli, chiedersi se possiamo darle per scontate o dobbiamo coltivarle con cura. Che Akira Fudo, nonostante le sembianze mostruose, sia il campione della sensibilità e dell’amore, è scontato. Non a caso, inoltre, siamo di fronte ad un protagonista piagnucolone, ma che versa lacrime solo per la sofferenza altrui.
Ma ciò che più cattura l’attenzione è il gioco delle parti a cui assistiamo, dove le facili associazioni demone/malvagio e umano/vittima vengono più volte ribaltate. A fine visione risulterà chiaro che entrambe le parti sono capaci di amore e odio, di tenerezza e violenza. Ne sono un chiaro esempio tanto le interazioni tra Kaim e Sirène, quanto l’umanità fuori controllo dopo la scoperta dell’esistenza dei demoni.
È in un clima esasperato ed esasperante che Devilman emette il suo verdetto speranzoso eppure pessimista: si possono nutrire dei sentimenti genuini e positivi, ma sono un raro tesoro. Raro perché spesso sotterrato dai propri egoismi o, in situazioni di crisi, dal puro desiderio di sopravvivere, che ci fa perdere la nostra umanità e ci avvicina alle bestie. Talmente raro che perfino Dio preferisce attendere impassibile che le sue creature si annientino a vicenda prima di intervenire. Forse per sanare il mondo e ricominciare o forse solo per punire.
Giovanni Di Rienzo