Fin da quando uscì nel ’95, Ghost in the Shell, diretto da Mamoru Oshii, è stato considerato una pietra miliare del cyberpunk. Le sue caratteristiche principali sono infatti la dialettica tra umani e I.A., i potenziamenti cibernetici del corpo fisico e le relative riflessioni antropologiche e filosofiche. Elementi che troviamo già nell’omonimo fumetto di Masamune Shirow. Uscito nell’89 e principale fonte del film, si fa riconoscere per una narrazione ostica e non sempre limpida. Vizio di forma che, purtroppo, hanno ereditato anche le varie trasposizioni animate.
A breve distanza dall’uscita della live-action, spesso criticata per la banalità dei temi trattati nonostante proponga contenuti del tutto coerenti con il resto della saga, vale la pena riflettere sugli stimoli offerti dal primo film del ’95 e dal suo seguito del 2004, Ghost in the Shell 2: Innocence. Seppur a distanza di più di vent’anni, Motoko Kusanagi e la Sezione 9 restano più che mai radicate nel presente.
Ghost in the Shell: vita organica ed inorganica
Per orientarsi nel mondo di Ghost in the Shell è importante sapere che si dà come presupposto che l’anima, il ghost, sia ciò che distingue l’umano dalla macchina. Esso è contenuto nel corpo (shell), più o meno modificato tecnologicamente, o più propriamente nel cervello, il solo che, anche nella sua conversione in cervello elettronico, rimane almeno in parte organico. Si tratta però di una premessa, che verrà sconfessata nel corso della narrazione.
Il primo film ruota intorno alle figure complementari del Maggiore Motoko Kusanagi e del Burattinaio, abile hacker che si rivelerà un’entità senziente generata dalla rete. Nel corso della breve trama, la protagonista, ossessionata dai dubbi sulla sua identità, insegue il pirata informatico per scoprirne le reali intenzioni. Sarà solo in conclusione, nella scena madre del film, che il Burattinaio rivelerà la sua intenzione di fondersi con Kusanagi, la quale accetterà dando vita ad un nuovo essere.
L’intenzione è di cercare le similitudini, piuttosto che le differenze, tra essere umano e macchina. Anzi, seguendo le parole del Burattinaio, si cerca di delineare un altro tipo di vita, oltre quella umana, che non può essere semplicemente bollata come “artificiale”:
“Non sono un’intelligenza artificiale. Il mio nome in codice è progetto 2501. Io sono un’entità vivente pensante che è stata generata dal mare dell’informatica”.
Affermazione che riecheggia le convinzioni di molti appassionati ed esperti di informatica, che ritengono che prima o poi nella rete l’enorme mole di dati genererà una coscienza autonoma, grazie ad un passaggio dal quantitativo al qualitativo. Inoltre il Burattinaio è un personaggio coerente con le convinzioni della scienza più recente, che interpretano gli organismi come sistemi algoritmici. Un algoritmo è riproducibile a prescindere dal materiale del suo operatore e dunque una distinzione troppo marcata tra le capacità di un sistema di algoritmi organici e uno inorganico va sfumando.
Kusanagi rappresenta efficacemente la labilità di questo confine. Abitando un corpo completamente artificiale, dove solo il suo cervello è organico, il Maggiore afferma che si sente umana solo grazie al riconoscimento dei suoi simili. Non c’è alcun modo intrinseco di confermare la propria identità organica:
“Se un cervello cibernetico potesse generare da sé un proprio ghost [anima], se potesse creare la propria anima, quale sarebbe l’importanza di essere totalmente umani?”.
E in un dialogo precedente con Batou arriva a considerare il confine del corpo fisico una limitazione, quasi ad alludere che la vita inorganica potrebbe essere capace di superare i confini in cui quella organica è costretta inevitabilmente.
Proprio tali considerazioni spingono Kusanagi ad accettare l’offerta del Burattinaio di trascendere in un’entità integrata nella rete. Entrambi trovano così la parte mancante di sé di cui erano alla ricerca. Kusanagi, come abbiamo visto, avverte qualcosa al di là dell’esistenza corporea, ma non sa come raggiungerla. Il Burattinaio, invece, pur avendo raggiunto l’auto-coscienza, si sente incompleto. Capace solo di duplicarsi e non di riprodursi, cosa che lo rende un sistema rigido e immutabile, non può diversificare i suoi dati, o se vogliamo il suo genoma, come un essere vivente.
Ghost in the Shell 2 – Innocence: la dignità della vita?
Se il primo film comprime in meno di 90 minuti una serie di contenuti profondi quanto complessi, Ghost in the Shell 2: Innocence ha un ritmo ed uno stile più fruibili, fino a scadere a volte nel didascalico per il quantitativo considerevole di massime altisonanti proferite da Batou e altri personaggi.
Proprio Batou e il collega Togusa sono i nuovi protagonisti, intenti a svelare il mistero del comportamento omicida di alcuni robot da compagnia, le ginoidi. Le indagini mostreranno che le ginoidi sono così “umane” ed apprezzate dai loro clienti perché la società produttrice impianta in loro, tramite un processo illegale (il ghost dubbing), anime di bambini. Saranno Batou e una Kusanagi momentaneamente ritornata sul piano materiale a fermare questa catena di sfruttamento.
In continuità con il predecessore, il nucleo del discorso è la possibile vicinanza tra vita organica e inorganica, anche se qui l’orizzonte concettuale è più esplicito e accessibile. A più riprese si scontrano visioni meccanicistica e non della vita, sulla scia dell’ossessione umana di produrre una copia artificiale di sé.
Il misto di orrore e fascino dell’umanità verso la creazione degli androidi è senza dubbio il nucleo concettuale più interessante del film. Il lato cinico e disilluso delle tematiche proposte è rappresentato dall’hacker Kim. In quella che è probabilmente la scena più suggestiva dell’opera, Kim, incarnato in una marionetta fatiscente, afferma che gli umani sono meri meccanismi. Proprio l’aver dato vita ai robot, configurandoli a propria immagine, dà conferma di questa gravosa ipotesi. Non a caso tali rivelazioni avvengono durante un hacking del cervello elettronico, dove Togusa vede al posto di Kim una marionetta identica a se stesso:
“Inquietante, vero? Me ne rendo conto. Il dubbio ci attanaglia. Se una creatura sembra viva, è viva realmente? O al contrario, se un oggetto è senza vita, può vivere? È per questo che i robot ci fanno paura: sono modellati sugli umani, ma in realtà, essi sono umani! Ci mettono di fronte all’orrore di essere un mero meccanismo, semplice materia”.
Ma il reale messaggio che si vuole mandare è un altro. Infatti tutto il film è attraversato da un concetto di dignità della vita che si riscatta da tale meccanicismo radicale. L’amore di Togusa per i propri cari; l’affezione di Batou per il suo cane, seppur clonato; il desiderio di riscatto tanto dei bambini vittime del ghost dubbing, ma anche delle ginoidi, ugualmente degne di essere considerate vive, sono tutti elementi che spingono verso una lettura della vita come qualcosa di più di un semplice fenomeno biologico: l’anima stessa non può ridursi ad un sistema di algoritmi, per quanto estremamente complesso.
Eppure, nonostante l’esito ottimistico, il film si conclude con una scena straniante, dove Batou guarda contrito il volto della bambola che Togusa ha portato alla figlia tornando a casa.
Stimolare domande
Non solo questi due film, ma l’intera produzione legata all’universo di Ghost in the Shell sembra suggerire che i confini tra vita organica e inorganica non siano molto definiti: nella serie animata, Ghost in the Shell: Stand Alone Complex, ne abbiamo un intrigante esempio grazie ai Tachikoma, dei carri armati dotati di I.A. capaci di apprendere e modificarsi grazie all’esperienza, che purtroppo non hanno trovato spazio nelle due opere cinematografiche.
E tale ambiguità poggia sull’assenza, ribadita più volte, di una definizione chiara della vita sia in campo scientifico che filosofico. Ancor più oggi che vent’anni fa, considerati i progressi della ricerca scientifica in campo di intelligenza artificiale, tali spunti echeggiano vigorosamente. Certo, non bisogna fare l’errore di sopravvalutare ciò che produciamo e sottovalutare noi stessi, sprofondando senza scampo nel concetto di “vergogna prometeica” del filosofo G. Anders: gli studi più recenti sembrano mostrare che o le I.A. osserveranno il mondo con strumenti diversi dai nostri cinque sensi o avremo bisogno ancora di ulteriori e considerevoli progressi tecnici per riprodurre efficacemente l’essere umano. Né bisogna farsi influenzare troppo dalle similitudini: meno di un secolo fa l’uomo era paragonato ad una macchina a vapore, accostamento di cui oggi sorrideremmo. Può darsi che al paradigma computazionale spetti lo stesso destino, anzi, già oggi è un modello oggetto di numerose critiche.
Ma la produzione artistica ha il compito di lanciare uno sguardo lungimirante sul futuro, anche a costo di fare errori grossolani. Ghost in the Shell ha tuttora il merito di stimolare domande: in che modo vivremo il nostro corpo, quando potremo modificarlo dettagliatamente?, come ci rapporteremo ad una nuova forma di intelligenza?, se l’anima si dimostrerà davvero il risultato di un sistema algoritmico, avrà lo stesso valore?
Giovanni Di Rienzo