The War – Il pianeta delle scimmie si conclude come una lunga epopea. Cesare e il suo popolo arrivano finalmente in un luogo che possono chiamare casa. Stremati, induriti dalle avversità, il corpo segnato da cicatrici, ma con gli occhi ripieni della luce di un nuovo giorno.
Tirando le somme
La nuova trilogia dedicata a Il pianeta delle scimmie, iniziata nel 2011 e terminata l’anno scorso, è rimasta fortemente coerente in due punti. Nell’illustrare il peso e l’importanza che un leader ha nel guidare le sorti del proprio popolo. E nel mostrare un’altra stirpe di “animali razionali”, le loro scelte su come abitare il mondo e anche i relativi errori.
Colonne portanti della saga sono l’atmosfera di serietà, la tensione, la solennità che avvolgono gli eventi, stemperate da pochi elementi. La materia narrata non colpisce certo per l’originalità. Tuttavia la scrittura non fa calare l’interesse per un intreccio che accenta sapientemente tematiche, se vogliamo, ancestrali: i legami familiari, il senso si appartenenza, la già citata figura del capo, lo scontro con l’alterità e molto altro.
Il pesante fardello del capo
Se il film precedente si apriva inscenando in più forme la nascita (della civiltà, con la caccia; della vita, con l’arrivo del piccolo Cornelius), in The War – Il pianeta delle scimmie accade l’esatto opposto. È la morte a incombere, nelle scene di una cruenta battaglia, e, pochi minuti dopo, con l’uccisione della moglie di Cesare e di suo figlio Occhi Blu. Perché la trama ruota proprio attorno alla morte e alla necessità di fare i conti con essa.
Infatti Cesare (interpretato ancora una volta da Andy Serkis, come sempre a suo agio con il motion capture) si allontana dal gruppo in cerca di vendetta, accompagnato da una cerchia di fedelissimi che si rifiuta di farlo partire da solo.
Il raffinato gioco di contrappunto rispetto al prequel attraversa in toto il personaggio di Cesare, che realizza così appieno il suo carisma. Non più guida irreprensibile, capace di mediare gli alterni umori dei suoi compagni, nonché superare il tradimento di un compagno e, per un pelo, la morte. Piuttosto vediamo un individuo preda delle sue debolezze, del peso del suo ruolo, del suo odio. La sua espressione dura e fiera è anche e soprattutto stanca, gli occhi sempre liquidi a causa del dolore. Il regista Matt Reeves dosa ancora una volta, con imparziale calma, scena su scena, con un ritmo che si potrebbe definire stanco al pari del suo protagonista, eccezion fatta per le fasi finali.
Ma un notevole gioco di rimandi c’è anche con il “colonello” (un Woody Harrelson tagliato con l’accetta nel ruolo del militare intransigente). Ovvero l’antagonista, il “capo” degli umani, colui che ha portato via a Cesare i suoi cari. Messi uno di fronte all’altro, condividono forse non i mezzi, ma il ruolo e il desiderio di proteggere la propria razza. Non meno rilevante la scoperta che entrambi hanno patito sofferenze analoghe. Proprio questo incontro scuote dunque Cesare dalla miopia del suo odio, gli fa capire che, mutatis mutandis, entrambi vogliono la stessa cosa, far sopravvivere i propri simili. Dunque che la sua vendetta è una chimera priva di reali giustificazioni.
Qui finisce e inizia Il pianeta delle scimmie
Un ruolo importante è quindi rivestito anche dalla dialettica tra umani e scimmie. Entrate in possesso del pensiero razionale, le scimmie si pongono subito come un’alternativa e quindi un rischio per l’umanità. Se nel primo e secondo capitolo si cercano, nonostante tutto, dei punti di incontro, nel terzo la separazione è definitiva. Unica eccezione è Nova (eco del personaggio di Boulle), la bambina affetta da una nuova mutazione del virus prodotto accidentalmente dagli umani e causa di milioni di morti. Ma colpita da un morbo che sembra inibire la capacità di parlare, si colloca parzialmente al di fuori della dimensione umana.
Cesare è insomma costretto a fare i conti con l’impossibilità di una convivenza pacifica, o almeno non belligerante, con gli umani. Si impone un invalicabile aut-aut dove ogni concessione fatta all’altro è un possibile rischio procurato a se stesso.
Però tale impossibilità non dipende solo dall’umanità e dalla sua presunta incapacità di rispettare l’altro da sé. L’esistenza di un Koba, per quanto raffigurato come una mela marcia vittima della violenza umana, ne è la dura prova. Dura perché non solo dimostra che il dogma “scimmia non uccide scimmia” non è infallibile, non solo che esse non sono “migliori di umani” come sperava Cesare. Ma anche e soprattutto che, tanto tra gli umani, quanto tra le scimmie, ci sarà sempre qualcuno che si opporrà ad una relazione pacifica. Gli eventi del terzo capitolo testimoniano proprio di questa realtà. E sarà Cesare, come abbiamo visto, a fare da figura negativa.
Da qui, la risalita, difficile, per riscattarsi dai demoni che nonostante tutto continuano a perseguitarlo e salvare ancora una volta il suo popolo. Fino all’inevitabile finale, al meritato riposo, alla leggenda che i discendenti narreranno per sempre.
Questo reboot de Il pianeta delle scimmie trova così la sua conclusione, ma apre idealmente ad un nuovo mondo popolato da una nuova razza, dopo che la precedente è stata sotterrata simbolicamente da una valanga. Ma l’apertura, in realtà, non è solo ideale. Si vocifera infatti di un quarto capitolo. La stirpe di Cesare ha ancora qualcosa da raccontare?
Giovanni Di Rienzo