Cesare Beccaria: qualche appunto d’esordio. Che l’Illuminismo si configuri nella forma di un processo, ben lo aveva intuito Immanuel Kant in un articolo pubblicato durante l’anno 1794 sulla rivista Berlinische Monattschift: «l’uscita dall’uomo da uno stato di minorità». Processo dice lo sradicamento, il tradimento della Tradizione. Così, deve essere parso agli abitanti della Milano del 1764 Dei delitti e delle pene, opera anonima imbevuta sino alla conclusione del Lume della Ragione. Ancora più lietamente lo accolsero, loro che erano italiani, quando poterono impossessarsi di una copia in traduzione francese a cura di Andrè Morellet. Pur tradimento, ma non privo di eleganza.
Raramente i documenti possono vantare rivoluzioni sul terreno della pratica; spesso lasciano sedimentarne il germe, ma non sopravvivono abbastanza a lungo per saggiarne l’efficacia. Ecco, il libello anonimo Dei delitti e delle pene, è una delle poche opere teoriche, insieme con il Manifesto del partito comunista per firma di Karl Marx e Friedrich Engels e la ricezione da parte di Franco Basaglia di Storia della follia nell’età classica preparato da Michel Foucault, a potersi fregiare di una modificazione della prassi politica.
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I commenti a Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria
«Prima di chiudere vi soddisferò sul proposito del libro Dei delitti e delle pene. Il libro è del marchese Beccaria», così si esprime Pietro Verri in una lettera indirizzata agli amici milanesi per mezzo di cui era germogliato il progetto del periodico Il Caffè. Strani organismi, i pamphlet: basta che una voce li accenda, poi la fiamma, bruciando, ne edifica la cornice. Similmente dev’essere accaduto per il libello, il cui argomento, precisa Verri nella medesima lettera, è il risultato «delle conversazioni che giornalmente» si tenevano tra la congrega di Milano. Questa, mai paga, in casa alla luce fioca del lumicino (e a quella accecante della ragione) redigeva gli esiti delle conversazioni.
Degno d’interesse indagare, prima che del testo siano osservati propositi e intenzioni, la pluralità di voci da cui è stato investito. Due, su tutte: quella del settantenne Voltaire, che nel 1776 redige un Commentaire dell’opera del marchese Beccaria e, naturalmente, quella di Michel Foucault, il quale dedica proprio a Beccaria uno dei capitoli di Sorvegliare e punire. «Devo limitarmi a desiderare che si legga spesso l’opera di questo amante dell’umanità», scrive Voltaire dopo aver tracciato una genealogia delle istanze di tortura e pena di morte avvicendatesi nel corso del secoli.
«Rianimare un interesse utile e virtuoso, che il crimine prova essersi indebolito», traduce l’ermeneutica foucaultiana, osservando come la privazione della libertà rappresenti – giacché è un’estetica della prassi, quella presentata dall’autore – il tentativo di rianimare «il rispetto per il sentimento della proprietà» nel petto del malfattore abbandonato per la dolcezza del crimine. Coinvolta, nei quarantasette paragrafi di cui l’opera di Beccaria è strutturata, la più viva conformazione della natura umana.
Della natura umana nell’opera di Cesare Beccaria
«Le leggi», scrive Beccaria nell’introduzione all’opera – la quale è a parere di Franco Venturi «uno dei testi fondamentali dell’illuminismo italiano ed europeo» [1] –, hanno disatteso il patto primigenio tra uomini liberi concentrandosi nelle mani di pochi. Tale, allora, il proposito cui l’autore aspira: «la massima felicità divisa per il maggior numero». È allora una genealogia delle pene, quella che Cesare Beccaria propone: in che modo sono diventate effettive, le pene che adesso, noi giovanotti milanesi, possiamo indagare?
Il contrattualismo liberale proposto da John Locke nel secondo dei Due trattati sul governo è l’esordio teorico dell’opera; pure, l’ombra del Barone di Montesquieu ne capitalizza il soffio vitale. «Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità […] è tirannica», asserisce il marchese Beccaria, plagiando terminologia da Lo spirito delle leggi. Il proposito contempla una proporzione tra delitto e pena. «Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che discendesse dalla più forte alla più debole». Naturale che per le nostre società che ancora baruffano sopra la liceità della tortura e della pena di morte, le ambizioni principali del libello principali del libello non si risolvano che a esse.
Della tortura
Cos’è la tortura? Così, Cesare Beccaria, in una massima che non a torto si potrebbe considerare universale: «una crudeltà consacrata». Bisogna estirpare dalla norma il carattere di consuetudine lesinando dal dimostrare che la tortura leda a una presunta dignità umana.
Torturare, insomma, non è utile a nessuno, in quanto il dolore rischia di farsi «crogiuolo della verità». La verità non può più essere estorta per mezzo della violenza, ne sarebbe annientata altrimenti la veridicità. È dentro tale temperie che la pena di morte può essere osservata come una «inutile prodigalità di supplici, che non ha mai resi migliori gli uomini». Nient’altro che principio d’utilità, dunque? Bizzarro utilitarismo, se mescolato al contrattualismo.
Della pena di morte
Due, i poli attraverso cui l’autore disarticola le tanto veementi parole a favore della pena di morte; essa non è«né utile né necessaria». Illegittima, dunque, se considerata per mezzo di uno sguardo giusnaturalistico, ma pure giammai necessaria dentro le maglie della società civile. Certo, sediziosi e anarchici potrebbero distruggerne le fondamenta, ma allora tale società civile sarebbe già infranta; il patto e il corpo sociale, come pure afferma Gianni Francioni in Beccaria filosofo utilitarista, sarebbero divisi.
La natura presenta gli uomini immersi nello stato di cui scrive John Locke nel Secondo trattato sul governo, uno stato «di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri beni e di disporre come meglio credono»; ma pure, uno stato di eguaglianza e autorità reciproci. Se l’utilitarismo deve esser perseguito in una società liberale e dentro cui si manifesta la rifulgenza dei Lumi, allora non deve annientare l’inalienabilità dei diritti naturali dell’uomo.
A Beccaria, così fiducioso nella tranquillità civile da osservare l’ozio con sguardo cattivo, la conclusione.
Perché ogni pena non sia una violenza di uno o dei molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi.
Perché non si confonda il legislatore con il criminale.
Antonio Iannone
[1] F. Venturi, Cesare Beccaria in Dizionario biografico degli italiani.
Bibliografia
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Feltrinelli, Milano 2012.