Joseph Rudyard Kipling fu un poeta, scrittore e giornalista. Nato nel 1865 e morto nel 1936, nel 1907 venne insignito del premio Nobel per la Letteratura a soli 41 anni, ancora oggi un record. Il riconoscimento arrivò per una lunga carriera di successi, tra i quali il grosso pubblico ricorderà probabilmente “Il libro della giungla”. Il testo ci porta nel cuore delle tematiche di Kipling. Tra le sue riflessioni, infatti, trova spazio anche un argomento molto caro alle scienze sociali come quello dell’imperialismo. Lo scrittore se ne sentiva direttamente interessato, essendo nato da genitori inglesi nell’India colonizzata. Una delle sue opere più note su questo tema è la poesia White man’s burden, in italiano Il fardello dell’uomo bianco.
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L’assunzione del fardello
Nel 1899, una violenta guerra scoppiò tra gli Stati Uniti e le Filippine per imporre l’egemonia dei primi sulle seconde. Fu proprio in questa occasione che Kipling pubblicò, il 10 febbraio sul The New York Sun, “Il fardello dell’uomo bianco”. Il breve componimento – solo sette strofe – attira da sempre molte critiche sulla figura dell’autore anglo-indiano, visto come una sorta di cantore dell’imperialismo.
Al di là delle opinioni personali di Kipling, è certo che la poesia possa essere un perfetto emblema del clima filosofico e culturale di quegli anni. I suoi cinquantasei versi, infatti, descrivono molto bene la convinzione degli europei di essere portatori di una missione di civiltà. Ciò, se vogliamo, è anche il tratto peculiare dell’imperialismo ottocentesco. Il “fardello dell’uomo bianco” consiste nel vigilare su quelli che egli definisce:
“popoli irrequieti e selvaggi, genti da poco sottomesse, riottose, metà diavoli e metà fanciulli”.
Appare evidente la scarsa considerazione degli altri popoli da parte degli occidentali. Questa situazione si inserisce molto bene nel clima di razzismo scientifico dell’epoca. Pensiamo, ad esempio, alle distorte interpretazione fornite sul darwinismo, in chiave sociale, da parte di autori come Herbert Spencer.
Tale rigida divisione tra società primitive ed evolute emerge decisa dai versi del componimento, con Kipling che incarica i suoi compatrioti di “riempire la bocca della carestia e far cessare la malattia”. Una tale invadenza, tuttavia, potrebbe naturalmente provocare reazioni da parte dei sottomessi.
Qual è la risposta dell’autore?
L’ineluttabilità del fardello secondo Kipling
Kipling sa benissimo che il fine del progresso è “ricercato per altri” e che “l’indolenza e la follia pagana” potrebbero “ridurre al nulla tutte le speranze” dei civilizzatori. Nella quinta strofa, egli parla apertamente di “odio” e “biasimo” che i primitivi rivolgono all’uomo occidentale. Essi arrivano a chiedersi addirittura: “Perché ci ha strappato dal nostro legaccio, la nostra cara notte egiziana?”
Ciò corrisponde, storicamente, alle varie rivolte anticoloniali scoppiate nel corso della storia. Potremmo, allora, porci anche noi una domanda simile a quella dei protagonisti della poesia. La risposta di Kipling la conosciamo già: il fardello dell’uomo bianco è un destino ineluttabile di quest’ultimo. Quando l’autore afferma che il civilizzatore, in quei Paesi selvaggi, non troverà porti né strade, il suo giudizio è comunque deciso: “Costruiscili con i tuoi vivi, contrassegnali con i tuoi morti”.
Al di là, però, di questa visione quasi apocalittica, cosa pensano le scienze sociali di questa ineluttabilità della colonizzazione?
Il fardello dell’uomo bianco per gli scienziati sociali
La necessità della civilizzazione dei popoli “barbari” ad opera degli europei “progrediti” è un’idea che ritroviamo anche in autori che non ci aspetteremmo. Quest’ultima è, infatti, figlia dello sviluppismo, ovvero la teoria sociale secondo cui tutte le società progrediscono secondo lo stesso percorso lineare. Da questo punto di vista, è quindi inevitabile che l’Occidente “moderno” debba portare “la luce”, come dice Kipling, a popoli ancora primitivi. Su questo concordano tanto i liberali quanto i marxisti, perché lo sviluppismo lineare è un concetto comune a entrambe le filosofie.
Per fare un esempio, un autore come Karl Marx, che pure denuncia la razionalizzazione della violenza colonialista, in un’opera del 1853 aveva speso buone parole per “Il dominio britannico in India”. Nella sua visione, infatti, esso svolge una funzione modernizzante, benché involontaria, che aiuta lo sviluppo di quei popoli, preparando le loro società per il comunismo. Nel caso specifico, egli loda gli inglesi per aver distrutto le arretrate comunità di villaggio del sub-continente indiano.
Anche Marx, quindi, sembra riconoscere, benché a modo suo, l’importanza del fardello dell’uomo bianco.
Francesco Robustelli
Bibliografia
Lentini, Saperi sociali ricerca sociale 1500-2000, ed.Angeli, 2003
Marx, Il dominio britannico in India, New York Daily Tribune, 1853
FONTI MEDIA
avvenimentimilitariestorici.over-blog.it
L’immagine di copertina è ripresa dal sito: http://www.history-map.com