La merda, per quanto possa sembrare strano oltre che grottesco, è un elemento letterario usato da sempre e molto più spesso di quanto si possa immaginare. In ambito artistico, è famosa l’opera di Piero Manzoni, “artista milanese ma geniale”, che nel 1961 sigillò 90 barattoli di latta, come quelli della carne in scatola, ai quali applicò l’etichetta di “Merda d’artista”; un’opera che al di là dell’aspetto scandalistico, suggerì molteplici letture simboliche: dalla dissacrante metafora all’ironica e bonaria trasgressione. La letteratura è “arte della parola”; la parola non ha odore e non ha una consistenza concreta, dunque la letteratura può permettersi di parlare anche di merda. Molti autori hanno utilizzato questo elemento maleodorante nelle proprie opere, dall’antica Roma ai giorni nostri. Con l’educazione di Teofilo Folengo (1491-1544), che, nel settimo libro della sua opera “Baldus”, si scusa con il lettore per l’argomento trattato, iniziamo questo percorso letterario nella merda, ma non di merda:
“Perdonami, o lettore, se adesso la Musa puzzerà”
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La merda latina
Tra gli autori latini ce ne sono molti che si sono fatti trasportare dalla merda, usata specialmente a mo’ di scherno; così fu per Catullo, famoso per ben altre tematiche, che a suo tempo fu innovatore e poeta d’avanguardia e nel carme 36 compie un invettiva allo scrittore Volusio, considerando il suo stile vecchio e pedante:
“Annali di Volusio, carta merdosa
Sciogliete voi il voto per la mia morosa
(…)
Venite voi al fuoco che vi spetta
Pieni di volgarità e insulsità,
Annali di Volusio, carta di merda.”
Tra gli autori “di merda” troviamo anche Marziale, famoso per i suoi epigrammi ironici e pungenti, i cui versi sono spesso rivolti a persone che poco lo aggradano. Fa al nostro caso l’epigramma 83, dove prende in giro un vegetariano di nome Febo:
“Mangiar preferisci la tenera malva e la verdura:
Infatti, o Febo, hai la faccia di chi fa la cacca dura.”
Marziale inoltre si scaglia contro un poeta, Ligurino, maledicendo la sua fastidiosa abitudine di leggere a chiunque i suoi versi:
“Fuggire si deve più te del cattivo scorpione
Chi mai sopporta, ti chiedo, tanta afflizione?
Tu leggi a chi è in piedi e a colui che seduto si appaga
Tu leggi a chi corre, e leggi perfino a chi caga”
Anche Orazio è tra gli “autori fetenti”: in una sua surreale satira fa parlare una statua del Dio Priapo, la quale racconta al poeta le sue avventure. Vedendo il volto incredulo del poeta, la statua compie un giuramento a testimonianza della veridicità delle sue parole:
“Se mento in qualcosa che possa avere la testa
Di merda biancastra imbrattata da un corvo grosso
(…) mi diano tempesta
Ladri e finocchi, pisciando e cagandomi addosso”
La Merda ne “La Divina Commedia”
Già con Dante Alighieri “la tradizione letteraria della merda” trova continuità, e proprio nel più grande classico della letteratura italiana, La Divina Commedia: nel canto XVIII dell’inferno, che descrive la seconda bolgia dell’ottavo cerchio, immersi nello sterco, scontano la pena gli adulatori che Dante descrive così:
“Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
Vidi gente attuffata in uno sterco
Che da li uman privadi parea mosso.
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa s’era laico o cherco.” (Divina commedia, Inf., XVIII, vv.22-27)
Nel canto XXVIII invece, sono descritte le pene dei seminatori di discordia nella nona bolgia dell’ottavo cerchio. Qui il primo dannato descritto da Dante è Maometto, squarciato al centro del petto, come una botte che ha perso la doga centrale (mezzula) o il fondo (lulla) e si dilunga con disprezzo e con linguaggio volgare e plebeo a descrivere la miseria di un dannato verso il quale non vuole suscitare la minima idea di compassione. Il peccatore è aperto dal mento fin dove si trulla (dove si “emette l’aria intestinale”, il sedere); orribilmente squarciato, a Maometto tra le gambe pendono le interiora.
“Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.” (Divina commedia, Inf., XXVIII, vv.22-27)
Un’epopea della merda
Un posto d’onore tra gli “autori di merda” lo merita Tommaso Stigliani (1573-1651), poeta seicentesco ricordato soprattutto per il suo antimarinismo. Stigliani con lo pseudonimo Niccolò Bobadillo firma il suo poema in ottave “Le Merdeide”, scritto in chiave antispagnola, e recante il sottotitolo “Stanze in lode delli stronzi della Real Villa di Madrid”, pubblicato per la prima volta nel 1629 all’interno di una antologia di stampo burlesco. Madrid è descritta come una città sudicia e maleodorante, dove “i fetidi liquori” scorrono ovunque come un fiume. Nella città denigrata da Stigliani la merda è prorompente e “i signor stronzi”, descritti con indumenti azzurri o gialli, defecano senza ritegno:
“Miri Stronzi cadenti e fumeggianti
Stender giunti nel suol l’humida lista
Molti con dolci, e soavi canti,
Molti con faccia dolorosa e trista
Cacano com lor detta natura
Ne d’altri sol, che di se stessi han cura”
Quindi, conclude il poeta, una città così colma di escrementi dovrebbe cambiare il nome da Madrid a Merdid:
“Muta nome per Dio, che più sonoro
Sarà il tuo vanto fetido, e immondo,
e dì, pe i stronzi si famosi, e belli
Merdid ogn’un, no più Madrid, m’appelli.”
Dino Campana: “cercare la parola”
Disperata reincarnazione della figura ottocentesca del “poeta maledetto”, Dino Campana (1885-1932) si distingue per l’inclinazione al “negativo” della sua poesia, che mira a sconvolgere gli equilibri della comunicazione borghese. Tra i testi del Quaderno, che raccoglie testi scritti tra il 1904 e il 1914, troviamo l’uso provocatorio della merda nella poesia “Nella pampa giallastra il treno ardente”:
“. . .Io cerco una parola
Una sola parola per:
Sputarvi in viso, sfondarvi, ……
Merda – per ora
Al chimico che scoprirà di meglio
Sia dato il premio Nobel:
Una parola – dinamite fetida
Che immelmi lo scarlatto del vostro sangue porcino
E vi stritoli la spina dorsale
E moriate nel viscidume vomitorio melmoso delle vostre midolla”
In tale “ardore catastrofico” questa poesia sembra, non cantare, ma gridare e risolversi in una sola parola contenente tutta la più aggressiva distruttività, raggiungendo un singolare furore espressionistico. Per molti poeti la vita è vissuta nella ricerca della parola; la parola eroica di “morte” come conclusione della propria missione per altri scrittori, è invece per Dino Campana la dissacrante parola da sputare in viso, “merda” come insanabile contrasto con un mondo nemico.
Questi autori, ognuno col proprio stile e intento, hanno reso la merda un concetto letterario sublime, che realizza la nobiltà dell’idea pura enfatizzando l’oscenità della materia. Si è parlato di merda con una purezza che solo l’astrazione può realizzare, a conferma che la letteratura, pur con tutte le sue ombre, rende dicibile l’indicibile.
Maurizio Marchese
Bibliografia:
Davide Ultimieri, Autori di merda – la merda nella letteratura italiana e latina, 2015.