Gerd Achenbach, fondatore della consulenza filosofica, presenta un’analisi dell’irrequietezza che caratterizza la società moderna e propone una riscoperta di una parte della sapienza antica, per recuperare quella quiete interiore di cui il mondo si è privato.
In verità ne “Il libro della quiete interiore”, qui preso in esame, non viene espressa una teoria filosofica a tutto tondo. È possibile comunque cogliere elementi di originalità soprattutto se si considera che alcuni concetti ricorreranno anche nell’approccio della consulenza.
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La società moderna e il tempo senza tempo
Achenbach ritiene che un sintomo dell’irrequietezza, che contraddistingue la società moderna, sia ravvisabile nella percezione generale che abbiamo del tempo. Secondo il senso comune il tempo è prezioso e non bisogna sprecarlo. Ciò si traduce automaticamente anche nell’affannosa propensione a svolgere più attività contemporaneamente.
La nostra epoca si snoda in una continua trasformazione che interessa ogni ambito. Si va da quello scientifico e tecnologico a quello sociale delle lotte per i diritti. La velocità e il cambiamento sono gli elementi imprescindibili del mondo moderno. A detta di Achenbach, tutto ciò porta con sé non poche conseguenze:
“Il mondo moderno è essenzialmente, in conclusione, assenza di fine e, perciò, […] non ha un telos né alcun punto di arrivo, ma procede nell’indeterminazione.”
Questa smania di fare non solo è priva di scopo, ma impedisce all’uomo di vivere davvero quel tempo che ha a disposizione e anche di comprenderlo. Secondo il filosofo è la lentezza e non la frenesia a necessitare del tempo. Quest’ultimo sembra al centro dell’attenzione anche nel pensiero attuale, ma in verità il pensiero si sottomette allo stesso, limitandosi a spingerlo in avanti. Il trionfo del “sempre nuovo” ha spazzato via, secondo Achebach, anche il principio di anzianità, cioè quel principio che dà priorità all’eterno.
In definitiva, l’individuo pensa di andare al passo con i tempi, ma in verità si solleva contro il tempo, perché non riesce a sopportarlo e, così, lo perde.
Epitteto, Montaigne e Pascal
La tesi di Achenbach è chiara:
“Siamo morti in attesa, poiché chi vive con lo sguardo rivolto al suo futuro, vive al cospetto di ciò che sparisce.”
Eppure l’antica sapienza ha tanto da insegnarci perché, a latere delle posizioni adottate in merito all’irrequietezza dell’uomo, riconosce a quest’ultimo quella dignità che nell’epoca moderna è venuta meno. Achenbach riprende così la presentazione che Pascal fa di altri due filosofi: lo stoico Epitteto e lo scettico Montaigne.
Epitteto ripudia l’impotenza umana e quindi pensa che l’uomo debba volere ciò che accade per essere felice. Montaigne, al contrario, pensa che l’uomo debba capire quali sono i suoi limiti e contenere le sue pretese. Alla felicità, secondo lo scettico si arriva quando la razionalità cede il passo all’ozio.
Sulla scorta di Pascal, Achenbach ritiene che il primo attribuisca all’uomo una “superbia diabolica”, confidando troppo nella “grandezza” del suo animo. Il secondo, invece, si adegua eccessivamente alla sua “debolezza”, promuovendo in larga misura l’indolenza. Per l’uomo è importante leggere sia l’uno che l’altro per capire cosa è meglio accogliere ed evitare.
Con Pascal si approda invece ad un’altra idea, che così esprime nei suoi frammenti:
Noi non cerchiamo né il godimento tranquillo e pacifico che ci lascia pensare alla nostra infelice condizione, né i pericoli della guerra né la preoccupazione delle cariche, ma cerchiamo proprio il trambusto che ci distoglie dal pensarci e ci diverte.
Achenbach: l’uomo non si interroga sul perché della sua sofferenza
Il tema del divertimento come via per sfuggire a se stessi si allaccia alla parte finale di questo opuscolo. Si tratta della domanda che riguarda il perché della sofferenza, nonché quella alla quale il Moderno cerca di sottrarsi. Il Cristianesimo aveva tentato di dare una risposta ma, con la morte di Dio, l’uomo di oggi non si pone più quel quesito.
Achenbach scrive:
“La sofferenza viene delegata agli organi sociali […] a colui che soffre rimane solo la triste prospettiva di comprendere se stesso come vittima.”
L’uomo disconosce il dolore e paradossalmente proprio questa condizione lo priva della “coscienza di sé”, nonché della sua “straordinaria posizione”. Proprio il riconoscimento della sofferenza, come elemento negativo, che va sì combattuta, ma non rimossa, è un tema che è stato spesso messo in luce in questi anni anche dallo sloveno Žižek, seppur in contesti diversi.
L’unica strada per acquisire quella quiete interiore che tanto osanniamo sta forse, allora, nella consapevolezza del fatto che il dolore è necessario affinché l’uomo possa dirsi tale?
La risposta di Achenbach potrebbe essere in quel passo di Paul Ludwig Landsberg (filosofo morto in un campo di concentramento) che egli stesso riporta nelle ultime pagine:
“è naturale e lodevole che l’essere umano combatta per esempio contro la malattia, la crudeltà e la miseria. Ma in verità nonostante tutto, la felicità umana non ha fatto alcun progresso, piuttosto è vero il contrario. […] Non è sbagliata la lotta contro la sofferenza, ma l’illusione di poterla eliminare.”
Dunque, l’invito di Achenbach sembra attestarsi su una riscoperta della miseria come luogo in cui è possibile disvelare anche la dignità umana per riappacificarsi finalmente con se stessi.
Giuseppina Di Luna
Bibliografia
Gerd B. Achenbach, Il libro della quiete interiore, Feltrinelli editore, Milano 2016.
Paul Ludwig Landsberg, Die Erfarung des Todes, Frankfurt 1973.
MEDIA
L’immagine di copertina è tratta dal sito: http://canchageneral.com/king-crimson-in-the-court-of-the-crimson-king-1969/