Nel 2013 usciva L’arte della felicità, opera d’esordio e successo di Alessandro Rak, seguito recentemente da Gatta Cenerentola. L’accostamento di termini del titolo allude al tentativo del film di interpretare la felicità come un’arte. Arte dell’interpretazione del mondo, che ognuno può e deve declinare a modo suo.
Tra paesaggi rappresentati con uno stile accurato e piacevole e citazioni di Nietzsche e filosofia indiana un po’ alla buona, il racconto è un viaggio continuo alla ricerca di una felicità persa o forse in realtà mai trovata davvero. Lo stile delle animazioni, volutamente grezzo, mette in scena personaggi desiderosi di raccontare la loro storia, il tutto intervallato da una colonna sonora che merita un attento ascolto. Un mix che la 70esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ha premiato con più di un riconoscimento. Unico difetto rilevante è la diffusa carenza nel doppiaggio, a tratti amatoriale e a volte sofferente di problemi di mixaggio.
L’arte della felicità secondo Alessandro Rak
Detto questo, Sergio Cometa ci mette 80 minuti o dieci anni per trovare la sua personale interpretazione. Un lutto familiare lo getta inesorabilmente nello sconforto, così prende una decisione che stravolge la sua vita. Inizia a vivere nel suo taxi, lavorando senza sosta attraverso le strade di Napoli. La città fa qui da sfondo, si possono facilmente riconoscere luoghi simbolo come il Vesuvio oppure piazza Dante, ma anche le strade tristemente piene di spazzatura. Il regista ci tiene a far capire che il complesso di relazioni umane narrato si svolge tra i vicoli di questa città bella e dannata. Numerose inoltre le scene in cui il dialetto napoletano spicca con il suo carisma.
Tuttavia, mettendo da parte le connotazioni geografiche e culturali di carattere specifico, la prospettiva della storia si apre ad una visione ben più ampia. Si va infatti da Napoli fino in India per ritornare in Italia, sulla scia di riflessioni dal sapore filosofico, semplici ma efficaci.
È proprio questo il gioco di Rak e del suo L’arte della felicità, non è molto esigente con lo spettatore, ma lancia dei messaggi che meritano di essere raccolti. Il film è in fin dei conti una riflessione a tutto tondo sulla vita e sul modo che scegliamo per viverla. Il taxi di Sergio è una terra di passaggio dove la gente si ferma per raccontarsi, per riflettere o far riflettere. Ma al contempo il tassista non è un paziente Socrate, maestro della maieutica intento a trovare il buono nel prossimo. Tutt’altro, è lui stesso a rivendicare una propria individualità, ad esprimere con violenza l’esigenza di avere il suo spazio nel mondo e vederlo riconosciuto.
La felicità e l’alterità
L’arte della felicità non poteva che porre il cruciale problema dell’altro. La stessa catena di eventi, legata al rapporto conflittuale tra Sergio e il fratello Alfredo, parte da questo ineliminabile presupposto.
Per altro possiamo intendere innanzitutto un altro individuo, ma anche una differenza sostanziale, di pensiero e azione, rispetto ad esso. Una buona storia è quasi sempre dipendente dal gioco dialettico tra istanze differenti. È tale incontro/scontro a dar la spinta necessaria agli eventi e, fuori dall’ambito della finzione, a dare un senso alla vita. Ed è proprio questa differenza, che a volte risulta così odiosa e insopportabile, a rendere possibile la felicità. Secondo questa visione, un mondo di perfezione ed armonia sarebbe sinonimo di staticità e noia. La vera felicità è raggiunta solo attraverso un processo, uno sforzo, un confronto con l’altro che spesso è al contempo un confronto con se stessi.
La funzione dell’arte
Tuttavia in questo film non c’è solo la (ricerca della) felicità, ma anche l’arte. Infatti Sergio è un pianista in letargo che ha abbandonato la sua passione frustrato da eventi che non ha voluto accettare, diventando un “signor nessuno, tassinaro qualsiasi in un cesso di città”. Dopo un lungo calvario, sarà la musica a rappresentare la luce in fondo al tunnel verso cui puntare.
L’arte, potremmo dire, a volte è il mezzo per raggiungere lo scopo, il lampo di genio che sblocca la strada. Si tratta di un’arte in senso lato, comprensione ed espressione di se stessi, rivincita verso una società malata e omologante, un grido di dissenso verso qualcosa che non fa male solo al singolo, ma all’umanità intera. Ed è anche tentativo di riscatto, di un uomo o di una città, i quali si sentono calpestati giorno dopo giorno.
Come una scorciatoia che semplifica un sentiero altrimenti troppo arduo, l’arte ci restituisce la speranza di fare pace con noi stessi e con il mondo e di essere, al fine, felici.
Giovanni Di Rienzo