Lucio Anneo Seneca, detto Seneca il Vecchio per distinguerlo dal figlio Seneca filosofo, fu tra i maggiori intellettuali dell’epoca augustea: storico e appassionato di retorica, la sua fama si deve alla (parziale) sopravvivenza dell’Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores, scritto più comunemente conosciuto come comprendente sette Suasoriae e dieci libri di Controversiae. La sua opera, tuttavia, non si limitava a questo.
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La decadenza della retorica
Con i suoi Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores, Seneca il Vecchio testimonia lo stadio a cui la retorica era giunta dopo la fine della Repubblica. Riflessioni sulla decadenza della retorica saranno affrontate anche da Quintiliano e Tacito, ed è interessante notare come Seneca il Vecchio e Tacito, nel suo Dialogus de oratoribus, arrivino alle medesime conclusioni (mentre Quintiliano attribuirà la decadenza dell’oratoria proprio a Seneca figlio!): la morte del genere retorico, così come era conosciuto in epoca repubblicana, può essere imputata solo al cambio di forma di governo.
Venuto meno lo spazio politico del cittadino, diretta conseguenza fu la scomparsa anche del genere oratorio politico. Il genere retorico, dunque, con l’avvento del principato, era diventato ormai solo materia di spettacolo (grande fortuna avevano all’epoca le declamationes pubbliche) o semplice esercizio scolastico: esercitazioni, infatti, erano sia le suasoriae che le controversiae.
Le suasoriae e le controversiae
La suasoria apparteneva al genere deliberativo (in greco si potrebbe definire “epidittico”), e consisteva nella simulazione di un’orazione che avesse l’obiettivo di convincere (suadere) un personaggio famoso della storia o del mito a fare o non fare un’azione.
La controversia, invece, rientrava nel genere giudiziario, e risultava essere la riproduzione di un dibattimento, da posizioni opposte, di una causa, sulla base del diritto romano o greco.
Seneca il Vecchio, come si è detto, riportava nell’Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores esempi di suasoriae e controversiae: l’opera, dedicata ai figli (tra i quali, quindi, anche Seneca filosofo) e composta negli ultimi anni del principato di Tiberio, rappresentava il frutto dei ricordi della scuola di retorica, a cui Seneca il Vecchio resterà sempre legato, pur non avendo mai esercitato il mestiere di oratore (per questo l’appellativo “Retore” non è del tutto esatto).
Le Historiae ab initio bellorum civilium
Seneca il Vecchio era celebre in età antica anche per aver scritto un’opera storica: le Historiae ab initio bellorum civilium, cioè “Storie dall’inizio delle guerre civili”. Il titolo era tutt’altro che ornamentale, ma appunto fortemente programmatico, in quanto Seneca il Vecchio, con esso, esprimeva la sua intenzione di indagare le cause della fine della Repubblica e del passaggio al Principato attraverso l’analisi delle guerre civili.
Lattanzio, uno dei testimoni indiretti più importanti dell’opera, riporta il dato secondo il quale Seneca il Vecchio avrebbe analizzato la storia di Roma al pari della vita di un corpo, scandagliandone giovinezza, maturità e decadenza:
« Seneca divise, non senza profitto, le epoche della città romana. Egli ha affermato che in un primo momento la sua infanzia fu sotto il re Romolo, dal quale Roma nacque e, per così dire, fu educata; allora la sua infanzia sotto gli altri re fu cresciuta e modellata con più numerosi sistemi di istruzione e delle istituzioni; ma alla fine, nel regno di Tarquinio, quando ormai era cresciuta come si deve, non sopportava la schiavitù; e, dopo aver gettato via il giogo di una tirannia altezzosa, ha preferito obbedire alle leggi, piuttosto che ai re; e quando la sua gioventù è terminata entro la fine della guerra punica, poi a lungo con forza ha confermato che aveva cominciato ad essere virile. Infatti, quando Cartagine è stata spazzata via, dopo esser stata a lungo la sua rivale al potere, stese le mani per terra e per mare su tutto il mondo, fino a quando, dopo aver sottomesso tutti i re e le nazioni, quando i materiali per la guerra ora mancavano, abusò della sua forza, con la quale essa stessa si distrusse. Questa è stata la sua prima età, quando, lacerata da guerre civili e oppressa dal male intestino, di nuovo ricadde nel governo di un unico sovrano, per così dire girando ad una seconda infanzia. »
(Lattanzio, Divinae Institutiones, VII 15 – trad. A. D’Andria)
La novità delle Historiae di Seneca il Vecchio consisteva nel fatto che egli non associava l’inizio delle guerre civili al periodo di Mario e Silla, ma faceva risalire le radici della crisi repubblicana sin dall’epoca graccana, come ritengono anche oggi gli storici moderni: è la seditio Gracchana, per l’autore, il primo germe della decadenza della Repubblica.
La censura nel primo principato: Asinio Pollione e Seneca il Vecchio
Trattare del periodo delle guerre civili, specialmente in senso critico, era tra l’altro un bel rischio. Pare infatti che Seneca il Vecchio, come molti degli intellettuali che vissero a cavallo tra Repubblica e Principato, avesse alle sue spalle fonti ben poco allineate col nuovo potere augusteo. Lo storico, infatti, rifiutò la vulgata “ufficiale” delle opere storiche (i Commentarii) di Augusto e Cesare, e adottò come fonte le Historiae di Asinio Pollione, che pure ricevette i rimproveri di Orazio per aver osato scrivere qualcosa di troppo.
A differenza dell’amico Asinio Pollione che, nonostante gli avvertimenti, pubblicò comunque l’opera (ormai scomparsa, chissà come mai…), Seneca il Vecchio temette la censura augustea, e quindi lasciò incompleta l’opera.
Fu il figlio, in un momento storico più tranquillo perché ormai consolidato nella nuova forma istituzionale, a pubblicare le Historiae, probabilmente nei primi anni del principato di Claudio, non senza conseguenze. Quest’atto quasi “ideologico”, infatti, contribuì a scatenare le ire dell’imperatore, già ostile nei confronti di Seneca e intento a spazzare via gli ultimi rimasugli di repubblicanesimo.
La scoperta delle Historiae in un papiro ercolanese
Le Historiae ab initio bellorum civilium, ritenute ormai perdute, sono state invece ritrovate recentemente in un papiro ercolanese, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. La lettura del rotolo carbonizzato, in particolar modo l’analisi di alcune lettere, ha permesso di riconoscere il nome di Seneca il Vecchio e di ricollegare a lui il contenuto senza alcun dubbio storico del papiro.
È solo il primo passo per la ricostruzione – e forse anche per la riscoperta – di un autore a lungo ritenuto parzialmente perduto, la cui conoscenza, tuttavia, è un tassello imprescindibile per comprendere il difficile passaggio (sia politico, sia letterario) dall’età repubblicana a quella imperiale.
Alessia Amante