Non c’è alcun dubbio che l’opera di Dante Alighieri risenta di influenze ed ispirazioni provenienti dal mondo classico. Dalla Vita Nova al Convivio, la produzione letteraria del “sommo” ha sempre avuto un confronto diretto con i grandi nomi della letteratura latina e greca e raggiunge il proprio apice in quel caleidoscopio letterario, religioso, politico, filosofico e scientifico che è la Divina Commedia, e soprattutto nell’Inferno.
Attraverso l’opera più rappresentativa della nostra tradizione letteraria, Dante intende celebrare e pagare tributo a tutti quegli autori che lo hanno formato nei suoi studi e che lo hanno accompagnato nei momenti non sempre facili della sua esistenza.
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Considerazioni iniziali
Prima di addentrarci nel merito della questione, è necessario fare alcune premesse. La prima di queste è che, nello scrivere la Commedia, Dante non aveva a portata di mano i testi che citava. L’autore, come del resto era abitudine consolidata dell’uomo medievale, faceva affidamento sulla propria memoria. Questa rappresentava per il poeta una biblioteca, dalla quale Dante attingeva concetti o parole dei suoi autori più cari.
La seconda è che la citazione per Dante non si limita ad una mera estrapolazione di una o più parti di testo da ricopiare. Rielabora e riscrive porzioni di testo, usandole poi come fondamenta per le invenzioni stilistiche e letterarie presenti soprattutto nella cantica dell’Inferno.
Un altro elemento non meno importante è il fatto che Dante non conosceva e non parlava il greco, come buona parte dei letterati occidentali dell’epoca. Questo significa che la conoscenza delle opere di Omero, Aristotele, Platone, Euripide e di tutti gli altri autori greci derivano soprattutto dalle loro traduzioni in latino, nonché dalle citazioni che gli stessi autori latini fanno all’interno delle loro opere.
Il mondo classico nell’Inferno: tra “spiriti eletti”…
La presenza del mondo classico nella Commedia è palese fin dal primo canto dell’Inferno, con l’apparizione di Virgilio nella selva oscura. È oramai nota la tesi per cui Dante avrebbe scelto il poeta augusteo come guida nell’inferno (ma non negli altri mondi) per il fatto che la tradizione medievale gli attribuiva nella quarta egloga delle Bucoliche la profezia della nascita di Cristo (il “nascenti puero”, v. 10). In questo modo Dante dimostra la propria fedeltà al mito di Virgilio mago, ampiamente diffuso in Campania, legato anche alla fede cristiana.
Trovandosi davanti ad uno dei suoi poeti del cuore, Dante si emoziona e dimostra l’amore che prova nei confronti della sua opera attraverso una vera e propria captatio benevolentiae:
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore».
Facendo così, Dante costruisce un ponte diretto tra sé e il mondo classico; a dimostrazione di ciò il canto IV, dedicato al primo girone dell’inferno: il limbo.
Oltre alle anime dei bambini morti non battezzati, qui trovano dimora anche quelle dei magni spiriti dell’antichità che non commisero peccato, ma nacquero prima dell’avvento di Cristo. La loro pena non comporta sofferenza fisica, ma consiste nel desiderio inappagabile della vicinanza a Dio.
A Virgilio è familiare questo luogo: anch’egli è uno dei tanti spiriti che vi risiede, tanto che impallidisce quando lo scorge.
«Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
All’interno del canto, inoltre, è presente un episodio che testimonia il rispetto che Dante ha nei confronti della cultura classica: l’incontro tra il poeta fiorentino e quattro dei suoi poeti più cari: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano.
Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
I quattro poeti sorridono al pellegrino Dante e decidono di accoglierlo nella loro cerchia, rendendolo di fatto uno di loro. Virgilio se ne compiace e Dante si sente quasi onorato, tant’è che afferma:
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
Rispetto, ammirazione e compassione fuoriescono dalla penna di Dante nell’onorare chi, nonostante le distanze temporali e religiose, ha lasciato il proprio segno nella storia della letteratura e del sapere.
… e “spiriti dannati” nell’Inferno
Ma non tutti i personaggi del mondo classico godono del privilegio degli esuli del limbo. La maggior parte di loro si sono macchiati dei peggiori peccati e, per volere divino, sono obbligati a scontare la punizione delle proprie malefatte.
L’universo di Malebolge, l’enorme campo circolare che costituisce il penultimo dei nove cerchi dell’inferno, ne è pieno. Tra i ruffiani del canto XVIII che corrono nudi, divisi in due schiere e fustigati dai diavoli, troviamo Giasone. Dante lo descrive sulla scia del racconto che Ovidio ne fa nelle Heroides (nella dodicesima lettera): il comandante degli Argonauti usò l’amore della maga Medea per tornaconto personale, costringendola prima a tradire e ad uccidere i suoi familiari e poi sfruttando le sue arti magiche per impossessarsi del vello d’oro nella Colchide. Ancor prima dell’incontro con Medea, Giasone giunse nell’isola di Lemno, dove l’eroe ingannò la giovane Isifile e, incinta, l’abbandonò:
E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: «Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne.Ello passò per l’isola di Lenno,
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte l’altre ingannate.Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta».
Per bocca di Virgilio, Dante ci mostra la figura di un eroe indifferente alla tremenda punizione che deve subire, ma ciò non basta ad esaltare l’eroismo ignorando il dolore da lui provocato. Qui il messaggio è chiaro: la fama non può cancellare le colpe commesse.
Nello stesso canto (ma in un’altra bolgia), Virgilio introduce un’altra figura: la prostituta Taide, personaggio dell’Eunuchus di Terenzio; tuttavia il poeta usa come fonte un passo del De amicitia di Cicerone, proprio nel quale questo personaggio era proposto come esempio di adulazione.
La punizione a cui lei e gli altri adulatori sono sottoposti rasenta il grottesco e il repellente: essi sono immersi in un mare di sterco, che non permette loro di respirare e li porta alla pazzia. Taide, in particolare, è descritta con un realismo così crudo che ne delinea la bassezza umana:
lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l’occhio attinghedi quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.Taide è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”».
Tuttavia, anche in mezzo alla putrida umanità che popola Malebolge c’è spazio per personaggi di grande spessore e tra tutti spicca Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno. I due pellegrini lo incontrano nell’ottava bolgia, quella dei consiglieri fraudolenti. L’eroe di Itaca è nascosto, assieme all’amico Diomede, in una fiamma (così come in vita nascose i propri inganni, in primis quello del cavallo di Troia).
Il poeta è emozionato all’idea di poter dialogare con il più illustre tra gli Achei, ma Virgilio lo avverte che sarà lui a prendere la parola poiché i greci sono molto orgogliosi e udire un idioma diverso dal loro uscire dalla bocca di un bàrbaros (parola con cui i greci indicavano lo straniero) li renderebbe restii a parlare.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto.
Ulisse informa Dante dei suoi ultimi giorni vissuti tra i vivi. Dopo essere tornato ad Itaca, l’eroe era talmente assetato di conoscenza e sapere che nemmeno la moglie Penelope e il figlio Telemaco riuscirono a trattenerlo in patria. Così, radunati i suoi compagni, li esorta a riprendere il mare con la celebre “orazion picciola”:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.
Così Ulisse supera le colonne d’Ercole, che secondo la geografia medievale segnavano la fine del mondo abitato, per giungere nell’emisfero australe. In lontananza vede una montagna, quella del Purgatorio, e lui e i suoi compagni esultano. Ma la gioia ben presto si tramuta in dramma, quando si scatena una tempesta che trascina nei suoi abissi la nave e le vite di Ulisse e dei compagni.
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.
L’Ulisse di Dante è un personaggio che rispecchia la sua controparte omerica, pur non essendo mai esistito nella letteratura classica un racconto sulla morte dell’“uomo dal multiforme ingegno”. In realtà Dante usa la fine dell’eroe dell’Odissea come un monito per gli uomini: non bisogna mai superare i limiti della conoscenza. Questo non significa che l’uomo non deve coltivare l’amore per la sapienza e per la curiosità (anche perché si tratta di una caratteristica innata), ma di sapere dove sia necessario fermarsi per non incorrere in alcun pericolo, come è successo a Ulisse.
Ciro Gianluigi Barbato
Bibliografia
R. Giglio, In viaggio con Dante. Studi Danteschi, Loffredo editore
Dante Alighieri, Commedia, Mondadori, a cura di Annamaria Chiavacci Leonardi.
Virglio, Eneide, Mondadori.