Tra il 1665 e il 1666, la peste aveva colpito Londra con inaudita violenza. Passata alla storia con il nome di Grande Peste di Londra, l’epidemia, giunta via mare dall’Olanda, mietè un numero di vittime compreso tra un quinto e un quarto dell’intera popolazione cittadina, che si aggirava all’epoca intorno alle 400.000 anime. Tra i superstiti del disastro figura un bambino londinese, Daniel Foe. Nel 1703 aggiungerà un “De” al cognome, trasformandolo in quello con cui conosciamo meglio il padre di Robinson Crusoe e Moll Flanders: Daniel Defoe (Londra, 1660 – Moorfields, 1731).
Indice dell'articolo
Un personaggio eclettico
Acutissimo osservatore della sua epoca e voce illustre della letteratura inglese del Settecento, Daniel Defoe fu un personaggio dinamico e poliedrico. Avventuriero, commerciante, giornalista, autore di satire, saggista, romanziere, poeta e persino agente segreto, il grande autore londinese ha anche fornito una delle opere più significative e dettagliate sulla Grande Peste di Londra.
Basandosi sui propri ricordi, racconti altrui e fonti dell’epoca, soprattutto i bill of mortality (documenti che riportavano il bilancio settimanale delle morti) del 1665 e la Loimologia, resoconto sulla Grande Peste di Londra redatto dal dottor Nathaniel Hodges, Defoe partorisce un’opera in cui convergono invenzione letteraria e ricerca storica: A Journal of the Plague Year, Diario dell’Anno della Peste: il terribile 1665.
Quando lo scrittore redige il Diario e lo fa pubblicare nel 1722, la Grande Peste di Londra è un infausto e lontano ricordo. Il dramma di Marsiglia, dove l’epidemia era esplosa nel 1720, acuisce però la paura di una diffusione oltremanica: il Diario nasce infatti non solo come tentativo di ottenere riconoscimenti e considerazione, ma anche come avvertimento alle autorità ad una maggiore cautela e lungimiranza affinché la catastrofe del 1665 non si ripetesse. In effetti non si ripeterà: quella del 1665-1666 sarà l’ultima grande epidemia di peste della storia d’Inghilterra.
Il finto diario di Daniel Defoe
Il Diario, sebbene sia presentato come autentico, è fittizio come l’autore a cui ne è attribuita la paternità: il sellaio H.F., testimone e narratore interno di cui conosciamo solo le iniziali. Personaggio immaginario, è probabilmente un riferimento ad Henry Foe, il defunto zio dello scrittore che praticava la stessa professione del personaggio.
Cristiano esemplare fiducioso nella Provvidenza, il sellaio decide di restare in città per tutelare i suoi commerci a rischio di morire di peste. Si rimette alla volontà di Dio, ma non resta passivo di fronte alle condizioni a lui ostili: vuole sopravvivere come Robinson Crusoe e Moll Flanders.
Sulla base della rigida moralità puritana di Defoe, inoltre, non si può ignorare il monito di carattere religioso: nonostante l’esistenza della teoria miasmatica, la convinzione comune restava quella dell’origine divina dell’epidemia, il castigo dell’Onnipotente sull’umanità peccatrice, teoria sostenuta più volte dallo stesso narratore nel testo.
Attraverso la narrazione di H.F., l’autore londinese delinea l’avanzamento dell’epidemia dalle periferie alla City e pone una grande attenzione al rapporto tra malattia e condizione sociale: nota infatti che muoiono soprattutto i più indigenti, svantaggiati dalle pessime condizioni igieniche che favorivano la proliferazione di ratti e pulci, gli untori della peste bubbonica di cui i medici dell’epoca ignoravano il ruolo chiave rivestito nella diffusione della malattia.
Consigli alimentari, fumare tabacco, fuochi e fumigazioni profumate per purificare l’aria corrotta dal miasma pestifero si rivelarono infatti mezzi inefficaci contro la furia epidemica. Come ammesso dallo stesso narratore, l’unica arma veramente efficace contro la peste è la fuga, la tattica adottata da John, Thomas e Richard, rispettivamente un fornaio, un fabbricante di vele e un falegname, di cui è narrato l’esodo.
“O Signore, abbi pietà di noi”: il 1665
“Ogni casa infetta dovrà essere contrassegnata da una croce rossa lunga trenta centimetri, al centro della porta, ben visibile, assieme alla scritta “O Signore, abbi pietà di noi”, proprio sopra la croce, e fino alla riapertura legale di quella casa.” [1]
Così recita una delle ordinanze preventive emesse dal sindaco di Londra a fine giugno 1665 e riportate con cura da Defoe nel suo finto diario sulla peste, che colpì con la massima violenza proprio dall’estate del 1665. Nel solo periodo compreso tra l’8 agosto e il 10 ottobre del suddetto anno, riferisce l’autore sulla base delle statistiche dell’epoca, muoiono di peste quasi 50.000 persone.
Disperazione
L’autore annota con crudo realismo le reazioni della popolazione ai provvedimenti dell’autorità e, sebbene la consideri una precauzione necessaria, non nasconde la sua critica a questa forma segregativa di quarantena, che contribuisce a creare un clima di caos psicosociale: alcuni isolati si suicidano lanciandosi dalle finestre, sopraffatti dal dolore lancinante dei bubboni, linfonodi ingrossati a causa dell’azione dello Yersinia Pestis, il batterio patogeno della peste. Altri vagano per le strade in preda alla disperazione più cieca, scossi dagli orrori dal morbo.
Grida bestiali risuonano nelle strade deserte, attraversate puntualmente al calar delle tenebre dai carri dei monatti, gli addetti al recupero dei cadaveri degli appestati da gettare nelle fosse comuni.
Altri ancora, disperati e confinati nelle loro abitazioni assieme ai familiari appestati, andranno incontro alla morte a loro volta. C’è però anche chi elude, corrompe, aggredisce e uccide i sorveglianti delle proprie abitazioni chiuse per garantirsi la fuga dalla propria prigione domestica o nasconde i cadaveri dei propri familiari per evitare di essere rinchiuso. Chi scappa nelle campagne, invece, si scontra con la diffidenza dei contadini timorosi di contrarre la peste.
Intere famiglie spazzate via, altre spezzate, sacrificate sull’altare dell’autoconservazione. L’abbandono della prole da parte dei genitori e viceversa causato dalla paura del contagio sembra fare eco all’introduzione alla prima giornata del Decameron di Boccaccio, in cui si avverte tutta l’angoscia di una civiltà, una disperazione percepibile anche tra le pagine del Diario.
Come spesso avviene nei momenti di profonda crisi, emerge il lato migliore e peggiore dell’uomo: incredibili atti di carità cristiana si intrecciano con lo sciacallaggio dei cadaveri, con la diffidenza e con la viltà.
Epilogo
Da dicembre in poi la pestilenza regredirà e sarà dichiarata ufficialmente debellata nel febbraio 1666. Sebbene in misura estremamente minore, causerà ulteriori morti fino all’estate dello stesso anno.
Il bill of mortality totale per l’anno 1665 presenta accanto alla voce “Plague” un numero di vittime spaventoso: 68.596. Una cifra altissima che Daniel Defoe identifica come riduttiva, come emerge anche dai versi che concludono l’opera e che coronano l’epopea di distruzione della pestilenza:
“una peste spaventosa a Londra ci fu
nell’anno milleseicentosessantacinque.
spazzò via centomila anime,
eppure io sono ancora qui” [2]
Pasquale Sbrizzi
Bibliografia
- BYRNE, J. P., Encyclopedia of the Black Death, Santa Barbara, ABC-CLIO, 2012.
- DANIEL DEFOE, Diario dell’anno della peste (titolo originale: A Journal of the Plague Year), con introduzione di FOFI G., traduzione di MERCANTI A., Roma, Lit Edizioni, 2014.
- [1], pp. 51-52;
- [2], p. 237