Quest’anno, Enrico Ghezzi è stato l’ospite d’onore di Venezia a Napoli, la rassegna curata da Antonella Di Nocera, che da anni porta in città film della Biennale poco distribuiti nelle sale. Accolto calorosamente dal pubblico del Cinema Astra, Enrico Ghezzi ha partecipato a incontri con la stampa e ha presentato Ni de lian (Your face) e Zan (Killing), rispettivamente di Tsai Ming-liang e Shinya Tsukamoto, due dei suoi cineasti più cari. In queste pagine, abbiamo deciso di lasciare ancora una volta la parola a lui, riproponendo i suoi pensieri ermeticamente limpidi, senza intrometterci più di tanto, se non in casi in cui non abbiamo resistito.
Indice dell'articolo
24 ottobre 2018 – Enrico Ghezzi dialoga con Ottavio Ragone, «La Repubblica»
«Come nasce la sua passione per il cinema?»
«Da un certo punto di vista mi sembra di esserci stato da sempre al cinema. Soprattutto, ho vissuto – da quando mi feci un po’ più grande, avrò avuto quattordici, quindici anni – un’età in cui tutto il cinema mi piaceva. Noi eravamo dei “Robespierre cinematografici”: tutte persone che passavano da un film all’altro, ma vedendoli dieci volte, e vi assicuro che aver visto un film dieci volte a quindici anni intanto era molto più difficile di adesso e poi era un vero stordimento. Sicuramente c’era e continua a esserci una sorta di addiction.Ma, che dire, il problema adesso a me pare diverso e credo sia un problema non solo mio: il problema oggi è imparare a invecchiare bene, il che vuol dire sostanzialmente imparare a dimenticare bene. Questa cosa da una parte è cruciale, ma dall’altra è lasciata a dormire nei fondali della cosiddetta cultura, mentre è evidente che tutto il movimento dell’informazione, anzi dello spettacolo, viaggia soprattutto verso il dimenticare. Allora dimenticare diventa anche resistibile, se vogliamo, ma è un resistere mentre stiamo già cedendo, mentre già non ce la facciamo più a metabolizzare tutto quello che ci viene propinato. Un mese fa è morto Paul Virilio, un filosofo francese notevole, appassionante, che ha lavorato sulla pesantezza della velocità. Credo che siamo su un tipo di crinale simile. Il cinema è ancora capace di farci dimenticare bene».
«Con piattaforme come Netflix, la fruizione sta passando da collettiva a individuale. Cosa ne pensa?»
«Il cinema credo sia abbastanza indifferente rispetto alle nostre preoccupazioni. Sono problemi che ci ponevamo già ai tempi dei primi film a colori, poi dei film tridimensionali, oppure comunque dei grandi formati. Un altro filosofo francese è Benjamin Fondane, che è morto ad Auschwitz, perché, anche avendo ottenuto un lasciapassare, si era rifiutato di lasciare il campo per non abbandonare sua sorella. Questa era una nota occasionale, però di Fondane è bellissima l’affermazione sul Cinemascope dove dice qualcosa tipo: “è inutile che ci preoccupiamo per il cinema, ci penserà da sé”».
«Qual è lo stato di salute del cinema italiano e quali sono i migliori autori di oggi?»
«Ho molte difficoltà a parlare degli attuali esiti del cinema. Il cinema italiano, da un certo punto di vista, non è mai stato così conosciuto come oggi, a livello di diffusione, di conoscenza critica. Non condivido i moti d’entusiasmo, però, è vero che il cinema italiano stesso pone un’asticella molto alta, pone modelli molto difficili, a partire da La dolce vita. A riguardo, prendendo un autore per tutti, mi viene in mente inevitabilmente Paolo Sorrentino. La cosa interessante del suo cinema è quella di rischiare tutto, perché tanto non sarà mai tutto […].
Detto ciò, se una cosa unisce tutti i cineasti del mondo, non sono tanto i modelli formali più o meno usati, ma il fatto che il cinema ha una specie di “intensità automatica”, che salva o danna gli autori, però nello stesso tempo non li porta mai alla scomunica, al crollo […]. Infatti, mi viene da ridere quando devo parlare o scrivere contro un film o un altro, scrivere dubbi sulla passione o meno, su film appassionanti o altri non appassionanti. Il fatto è che tra dieci anni un film che mi piace pochissimo sarà diventato interessantissimo dal punto di vista sociologico, come fossero le stanze di un palazzo che tutti abitiamo e tutti disabitiamo […]».
24 ottobre 2018 – Enrico Ghezzi presenta Ni de lian (Your face) di Tsai Ming-liang
Per presentare Ni de lian (Your Face), Enrico Ghezzi, fino a quel momento rivolto verso lo schermo, decide di girarsi verso il pubblico e mostrare la faccia, trasformando – in maniera metateatrale – la sua fragilità in «intensità spaventosa».
«Tsai Ming-liang è uno dei cineasti faro del cinema mondiale. Ha prodotto qualcosa di mai visto, qualcosa di contemporaneamente fragile e teso […].
Lo conosco da quando nel ‘94 vinse il Leone d’oro a Venezia. Io avevo visto Qingshaonian Nezha (Rebels of the Neon God), il film precedente, e avevo cercato di portarlo a Procida o a Taormina, ora non ricordo.
La cosa più stellare del suo cinema è quella di essere sempre in una posizione mediana, che però poi si trasforma in estrema, anche se può non sembrare estremo quando lo si vede la prima volta […].
Tsai Ming-liang ha spettatori ovunque, loro, per lui, sono tutti “amabili”, nel senso che, in Tsai, la sua stessa “crudeltà” diviene “beltà”. Il cinema viene offerto da Tsai come un regalo, anche se magari a volte sono polpette avvelenate – tra l’altro lui ama molto cucinare.
È un genio che mi rimanda, per questo film, a una serie di concetti cruciali, quelli che definirei come: la “forza della fragilità”, ma si potrebbe dire: la “velocità dell’immobilità”; un insieme di ossimori tutti profondamente e tremendamente giusti […].La cosa che mi ha colpito è che il film che vedrete stasera si avvicina molto ai limiti interni del cinema stesso. Come se osservassimo una coccinella, Ni de lian, che vedrete tra poco, è un film dove si mette a fuoco quello che di solito neanche… non dico sentiamo, ma non riusciamo neanche a immaginare attraverso l’atto di volontà […]. Ciò che viene fuori da questo film è che faciès è anche “vedere da dietro”. La faccia è […] una specie di passepartout della luce, non è un’idea pensata e espressa… è “pensata nel farsi”. E se vedrete il film, che non è affatto lungo, scoprirete che quasi ogni istante potrebbe essere illuminato da dietro o illuminato davanti, e la cosa illuminata e la cosa illuminante si fondono, e quindi la fragilità di questo cinema diventa forza, intensità spaventosa […]».
25 ottobre 2018 – Enrico Ghezzi presenta Zan (Killing) di Shinya Tsukamoto
Prima di passargli la parola, Giorgio Amitrano, orientalista, traduttore e accademico, ha ricordato come Enrico Ghezzi abbia appassionato generazioni di cinefili e lo ha descritto come una «pietra miliare», ritirando subito la parola appena detta perché «pietra è qualcosa di immobile». Ma Giorgio Amitrano aveva ragione, perché pietra è anche scoglio a cui aggrapparsi per non affondare.
«Vi ringrazio per le cose dette tra ieri e oggi. Scusate se non mi viene automatico di ringraziare, il fatto è che sono abbastanza timido e quindi vi ringrazio adesso.
Allora, quando Zan (Killing) finisce, non ricordo se prima o subito dopo i titoli di coda, accanto all’ideogramma del titolo c’è un puntino o una virgola (斬、), che sembra dire qualcosa come: “e adesso come finirà la storia?”. È una strizzata d’occhio stranissima. A Tsukamoto è stato fatto notare quando a Venezia abbiamo registrato una conversazione di un’ora, riservandoci per la fine questa domanda sul puntino. Lui si è fatto una risata e ha detto qualcosa tipo: “abbiamo fatto una riunione per decidere se metterlo o meno, eravamo incerti, ma alla fine abbiamo detto ‘perché no?’” […]. Dunque, perché questo puntino? Il cinema di Shinya è stato sin dall’inizio un cinema completamente libero, anarchico e, in un certo senso, anche autarchico, per la realizzazione dei primi cortometraggi e dei primi film. Trovarlo – come dire – ingabbiato in ipotesi di puntini o virgole, mi ha colpito proprio per la trascurabilità della cosa; soprattutto se si considerano le tipiche “tinte forti” del suo cinema.
Posso dire che con Tsukamoto mi ci sono ritrovato un sacco di volte. La prima volta che presi un suo film per la televisione, per Fuori orario, fu una apparizione impensabile per tutti. Cos’era questo film, che sembrava darrowsiano, che sembrava cronenberghiano e oltre? Queste ascendenze sono in parte rivendicate da lui, in parte dagli stessi che ho nominato adesso […].
Una volta mi misi a far vedere un suo film a un amico, stavamo in un bugigattolo in fondo a un corridoio. A un certo punto entra dentro Angelo Guglielmi, uno dei personaggi più autonomi della cultura italiana in generale, non solo del cinema e della televisione. Dice: “ma cos’è questo baccano? Abbassate l’audio!”, poi, sbiancato in volto, “ma cos’è questo film?”, e noi, “il film si chiama Tetsuo. Dobbiamo vedere se riusciamo a trovare il possessore dei diritti per l’Europa, ma per ora abbiamo solo indirizzi fasulli” […]. Due mesi dopo il film era pronto e sottotitolato. Chiunque lo vedeva non poteva non risentire una ferita agli occhi o un trionfo nel battito di ciglia che, chissà, forse è come quella virgola alla fine di Zan.Per quanto mi riguarda, Tsukamoto – da quando ha cominciato a fare cinema e poi in particolare da Tetsuo – procede almeno su due registri, che poi parlare di registri è sempre vagamente scolastico, però diciamolo lo stesso. Il primo è basato su “la storia del cinema secondo me”, la storia del cinema secondo Tsukamoto. Già Tetsuo aveva dentro non tanto due, tre, sette film, ma due, tre, sette “cinemi”: modi di muovere la cinepresa secondo il desiderio, secondo l’ondeggiare dell’immagine, secondo il sussultare dell’immagine. Il proposito di Tetsuo è quello di farla esplodere l’immagine, di far esplodere il “corpo-immagine”, il corpo dell’immagine, l’immagine del corpo eccetera eccetera. Dico eccetera eccetera perché mi sono trovato diverse volte a parlare del suo cinema e, in almeno due, tre occasioni, insieme abbiamo fatto passeggiate molto entusiasmanti, parlavamo di questo film in modo sempre molto fanciullesco […]. Tetsuo è una prova semplicissima, è un film fatto con poche lire, con pochi pezzi di ferro, delle lucette. Eppure, con quest’armamentario, è probabilmente il film – non solo giapponese, ma il film recente, recente intendo dire degli ultimi trent’anni – che sia riuscito a suscitare quest’interesse, questa presa della visualità, in ogni momento. Però, è evidente che sottolineare troppo questo vuol dire relegare altri film dello stesso Tsukamoto.
Lui è un cineasta da una parte di rinnovamento e dall’altra di conservazione; che poi è il meglio che possa fare il cinema, data la velocità, ne parlavo ieri. Infatti, Tetsuo ha un programma di velocità distruttiva, di autodistruzione; ma già nelle prime annate del cinema di Tsukamoto si inserivano immagini di antichi samurai, e il cinema fantastico consiste sempre nel cercare il salto in più, lo spavento in più […]. Se c’è un cineasta che ha praticato contemporaneamente la novità e la sfida e il riportarsi a un cinema di tradizione questo è Tsukamoto […]. La sua grandezza sta in questo modo di vivere la carne del cinema come la propria. Nessuno lo fa».
Lasciamo che sia l’ultimo pensiero a chiudere queste pagine: «la sua grandezza sta in questo modo di vivere la carne del cinema come la propria». Ci prendiamo la responsabilità di asserire che Enrico Ghezzi, parlando di Tsukamoto, parla un po’ anche di se stesso. É lui a vivere la carne del cinema come la propria. Mostrando la faccia e la sua “fragile forza” al pubblico, Enrico Ghezzi ci racconta di come il cinema sia antidoto, farmaco che estranea dalla pesantezza della velocità e consente ancora di dimenticare bene. E noi ci aggrappiamo alla pietra, allo scoglio che lui rappresenta, resistendo alla marea, ma cedendo alle immagini che ci appaiono quando chiudiamo gli occhi e li riapriamo sott’acqua, un po’ come fa Jean ne L’Atalante di Vigo…
Nicola De Rosa