Jacopone da Todi nacque Jacopo de’ Benedetti a Todi intorno al 1236; prima del suo ingresso nell’ordine francescano, avvenuto nel 1278, si sa unicamente che abbia esercitato nella sua città natale la professione di procuratore legale.
Vanna di Bernardino di Guidone, sua moglie, morì in seguito al crollo di un pavimento durante una festa in un castello. Un evento drammatico che segnò una svolta decisiva: secondo una tradizione più che consolidata, fu la scoperta sul suo corpo di un cilicio (strumento di penitenza corporale) a turbare così tanto Jacopo da convincerlo ad abbandonare tutto e a prendere i voti religiosi.
La vocazione
Visse dieci anni in ascesi e penitenza e poi entrò nel 1278 nell’ordine dei Frati minori e si schierò con l’ala rigorista degli spirituali. Dopo la morte di san Francesco, infatti, l’ordine era stato percorso da una profonda scissione tra gli spirituali (fautori di una rigida applicazione della regola, soprattutto riguardo all’assoluta povertà) e i conventuali (riconoscevano ai conventi la facoltà di avere proprietà e di abbellire i luoghi di culto).
Molti sentivano l’esigenza di un rinnovamento in senso pauperistico della Chiesa; l’elezione al soglio pontificio dell’eremita molisano Pietro da Morrone, che prese il nome di Celestino V, accese le speranze. Dopo pochi mesi però, Celestino abdicò e gli successe Bonifacio VIII, che ne vanificò i propositi di cambiamento. Jacopone da Todi assunse una posizione di esplicito dissenso rispetto alla politica del nuovo pontefice, tanto da venir scomunicato. Subì anche il carcere fino alla morte di Bonifacio VIII nel 1303; provato da questa esperienza, si ritirò nel convento di Collazzone, dove morì nel 1306.
I componimenti
Della sua opera ci restano novantadue laude, nelle quali è possibile isolare due filoni apparentemente contrastanti: mentre sembra essere legato a un deciso e militante intervento nelle lotte del mondo, cambia verso, esprimendo estraniazione dalla materia, nella ricerca di un contatto diretto con Dio.
Molte delle laude raccontano vicende autobiografiche, inserendosi nel contesto degli scontri religiosi del tempo: si pensi alla lauda “Que farai, Pier dal Morrone”, in cui Jacopone da Todi incalza Celestino V nel suo programma di rinnovamento, oppure alla potente invettiva “O papa Bonifazio, molt’hai iocato al monno” in cui attacca duramente l’odiato Papa.
Per quanto riguarda i componimenti caratterizzati da un forte desiderio di ascesi e da un totale disprezzo del corpo, si può ricordare quella in cui Jacopone da Todi invoca su di sé tutte le peggiori malattie. Al principio aristotelico della misura oppone la dismisura, da intendersi come traboccante amore per Dio, come incessante anelito alla verità.
L’estremismo dei suoi versi si manifesta anche a livello stilistico, dando vita a una poesia immediata che renda evidente il messaggio proposto; anche se Jacopone è scrittore colto e più controllato di quanto una prima lettura possa far pensare.
Conosce i grandi mistici, come san Bernardo e Ubertino da Casale, poi sant’Agostino e Innocenzo III e fu sicuramente influenzato dalle leggende francescane; ma non gli è del tutto estranea neppure l’esperienza della lirica d’amore (rivolgendone i dettami a Dio). Usa un livello lessicale fortemente espressionistico per dare risalto alle proprie concezioni della vita, del mondo e di Dio.
“Amor de caritate”
Dicembre è per eccellenza un mese importante per la fede cristiana per la ricorrenza di una delle sue festività fondamentali, la celebrazione della nascita di Cristo, il Natale. Jacopone da Todi è autore di una lauda importante in questo senso, molto lunga e scritta in volgare umbro. Si tratta della numero 89, “Amor de caritate”, in cui Jacopone usa le parole Amore e carità come due attributi fondamentali di quel Dio che, per amore, si incarna e si rende uomo. Un amore che però non si arresta alla discesa, ma suggerisce l’ombra della croce e la prospettiva della Risurrezione.
Tutto ciò emerge chiaramente dal testo e in particolar modo dai seguenti versi:
Tu da l’amore non te deffendisti,
de celo en terra fécete vinire;
Amore, a ttal bascezza descendisti,
com’om despetto per lo mondo gire;
casa né terra ià non ce volisti
(tal povertate per nui arrechire!).
En vita e ‘ndel morire mustrasti per certanza
Amor d’esmesuranza, che ardia ne lo tuo core.
Como ebrio per lo mondo spesso andavi,
menàvate l’Amor com’om venduto;
en tutte cose Amor sempre mustravi,
de te quasi neiente perceputo,
ché, stando ne lo templo, sì gridavi:
“A bbever vegna chi à sustinuto,
sete d’amor à ‘uto, che lli sirà donato
Amor esmesurato, qual pasce cun dolzore”.
Tu, Sapienzia, non te continisi
che l’Amor tuo spesso non versassi;[
d’Amore, or non de carne tu nascisti,
e umanato Amor, che ne salvassi!
Per abracciarne, en croce sì curristi
e credo che però tu non parlassi,
Amor, né te scusassi denante de Pilato,
per complir tal mercato, en croce, de l’Amore.
Per Jacopone l’effetto dell’Amore doveva essere travolgente fino all’estasi, invitando il credente (anche moderno) a meditare sul grandioso mistero del Natale.
Imma Borzacchiello