Chi gode di una certa dimestichezza col romanzo giallo ricorderà sicuramente L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie, in cui il dottor Sheppard, collaboratore del detective Poirot (chiamato a risolvere un caso di omicidio) e soprattutto narratore in prima persona della vicenda, si rivela l’assassino; la virata finale, se da una parte ha lo scopo di spiazzare e destabilizzare il lettore, dall’altra dona all’opera smalto, potenza magnetica da esercitare su chi ironicamente cerca nella lettura tale destabilizzazione. L’espediente si chiama narratore inaffidabile (denominazione utilizzata per la prima volta da Wayne C. Booth nel suo saggio The Rethoric of Fiction).
Il narratore inaffidabile altera i fatti in base alla propria prospettiva, costringendo il lettore a mettere in discussione, spesso soltanto alla fine dell’opera, la sua credibilità, e a rivalutare dunque l’intera vicenda. D’altronde, la carta non è pietra filosofale e non tutte le parole su di essa mutano in oro; il narratore, laddove di una persona comune si tratta, è tutt’altro che onnisciente e infallibile.
Ça va sans dire, la presenza del narratore inaffidabile può condurre ad esiti differenti, e di un’opera calcare tanto il realismo quanto la vaghezza. Lasciamo l’onere dell’esemplificazione ad alcuni grandi classici della letteratura.
Il narratore inaffidabile ne Il giro di vite
Pubblicato per la prima volta nel 1898, Il giro di vite di Henry James, fin dalle prime pagine, porta fieramente il vessillo del racconto gotico, di esso incarnando i topoi più acclamati. La giovane miss Giddens, narratrice dei fatti (in un manoscritto – questa è la cornice – ritrovato e narrato da un signore inglese ad una compagnia riunita attorno a un camino), si trova a fare da istitutrice a due orfani, Flora e Miles, per volere del loro zio; col tempo, l’istitutrice si accorge che i bambini sono perseguitati dagli spettri di due persone. Confrontandosi con la governante, scopre che si tratta dei fantasmi della precedente istitutrice e del maggiordomo, che intrattenevano una scandalosa relazione segreta, entrambi morti per cause misteriose.
Parrebbe una comune storia di fantasmi ottocentesca, se non fosse per la sottile eppure incisiva trama psicologica che si dirama da questo punto in poi. L’istitutrice, ormai testimone visiva delle presenze paranormali, è certa che esse affascinino i due bambini a tal punto che non vogliano parlarne, costituendo tuttavia per essi un pericolo.
La susseguente «partita a scacchi» tra l’istitutrice e i bambini si avviluppa secondo un climax per poi sciogliersi improvvisamente: Flora, fuggita verso il lago e ritrovata dalla stessa miss Giddens con la governante, si ammala di una strana febbre e disprezza definitivamente l’istitutrice; Miles, ormai rimasto solo nella tenuta con la Giddens e disposto a parlarle, le muore tra le braccia.
A libro appena chiuso, il primo impulso istintuale del lettore lo spinge a domandarsi cosa sia accaduto realmente. I fantasmi hanno avuto ciò che bramavano? La paranoia ossessiva dell’istitutrice ha essa stessa causato la malattia di Flora e la morte di Miles? Non ci è dato saperlo. La Giddens certo si presenta come decisa, sicura di sé, ligia al dovere, acquistando credibilità piuttosto che perdendola; ma nell’enigma del “giro della vite” vige certo il prospettivismo nietzschiano, che nega l’esistenza dei fatti puri a favore dell’interpretazione di essi.
Il narratore inaffidabile ne La coscienza di Zeno
La prefazione al più celebre romanzo di Italo Svevo, pubblicato nel 1923, è un’efficacissima cornice letteraria. In essa un tale dottor S., psicanalista, afferma di pubblicare l’autobiografia di un suo paziente «per vendetta»: autobiografia che, a detta dello stesso dottore, contiene «verità e menzogne». Già dall’inizio, dunque, si avverte il lettore della prospettiva egocentrica di Zeno Cosini, dilaniato dalla convinzione di essere «malato», diverso. Eppure, l’equilibrio di questa prospettiva non rimarrà il medesimo nel corso dell’opera.
Nel ripercorrere i punti salienti della sua vita (il vizio del fumo, il difficile rapporto col padre, la scelta della moglie, l’amante, l’attività commerciale…), Zeno è effettivamente tendente a giustificare alcuni avvenimenti alla luce della propria ipotetica patologia, alla quale associa la sua incapacità, il suo limitante idealismo rispetto alla spinta dinamica di altri personaggi (in particolare la “controparte” Guido, suo fervente socio in affari).
Nell’ultimo capitolo, Psico-analisi, Zeno, tuttavia, celebra inaspettatamente la sua totale guarigione, raggiunta senza l’aiuto dello psicanalista. Essa è sopraggiunta con la consapevolezza che «la vita attuale è inquinata alle radici»: appare dunque impossibile, secondo Zeno, distinguere tra malattia e salute, tra sano e insano; e se il narratore non è credibile, è perché nemmeno la realtà lo è più.
Nella profetica pagina conclusiva, dal gusto quasi escatologico, è con rassegnazione che fa capolino la visione di un’esplosione, estrema conseguenza di quell’inquinamento, dall’uomo stesso causata, eppure azzeratrice della sovrastruttura borghese e portatrice di una condizione di primordiale stabilità.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo.
Pierluigi Patavini