Velvet Buzzsaw, disponibile su Netflix dal 1° Febbraio, è il nuovo film di Dan Gilroy. Il regista tenta di condurre un esperimento interessante, chiedendosi “cosa ne pensa di noi l’arte?”. La risposta si rivela ben presto cruda e impietosa. Dopo i titoli iniziali, a mo’ di sigla di una serie tv, siamo trascinati in un mondo notoriamente ostile, il mercato dell’arte contemporanea, su cui l’arte figurativa si prepara a far cadere il proprio verdetto.
N.B. L’articolo contiene spoiler.
Velvet Buzzsaw: una metafora che rovescia
È scontato affermare che l’arte sia ormai inscindibilmente legata al consumo. Proprio per stigmatizzare questo rapporto degradante, Velvet Buzzsaw inscena una vendetta dell’arte verso coloro che da tempo la fagocitano. Ora è lei stessa a divorarli, a volte letteralmente.
I protagonisti sono legati ad una galleria d’arte, istituzione che “non vende beni che durano, ma percezioni”, come dice la proprietaria Rhodora (Rene Russo). Motore degli eventi sono le opere di un uomo dal passato travagliato, che ha sempre vissuto nell’ombra, celando centinaia di propri quadri. Morto prima di poter distruggere i suoi lavori, essi finiscono sul mercato con grande clamore. Ma ben presto lo stupore di fronte all’arte diventerà orrore.
La narrazione si snoda attorno ad una sequela di misteriose uccisioni che vede coinvolte persone che commerciano arte, criticano arte, usano e consumano arte, ma non sono mai davvero interessate all’arte. Uno fra tutti, il critico d’arte bisex ed effemminato Morf Vanderwalt (Jake Gyllenhaal in una performance stranamente poco convincente). Cinico e temuto, la sua professione è chiaramente un veicolo del suo ego. Maltratta, svilisce o esalta l’arte a seconda dei propri umori, esigenze, desideri e non per la passione di cui si riempie la bocca.
In Velvet Buzzsaw a salvarsi è solo chi mantiene un rapporto “puro”, o perlomeno disinteressato, con l’arte. Chi la rispetta e non ne abusa. È il caso dello street artist Damrish (Daveed Diggs) o di Piers (ruolo-cameo di John Malkovich). Il primo è agli inizi, il secondo nel mezzo di un blocco creativo, ma entrambi conservano un rapporto genuino con la pittura.
L’arte chiede il conto
Si potrebbe interpretare l’autore degli ammalianti quadri come una personificazione dell’arte che è esigenza (catartica?) e non desiderio di essere consumata da un pubblico. È un’arte pudica che rivendica un diritto alla riservatezza, che rivendica di essere una delle prime vittime della dittatura della trasparenza e della esteriorizzazione.
Motivo altrettanto forte è l’arte che sopraffà il suo artista, il suo veicolo. E, con esso, gli spettatori che si illudono di poter pasteggiare squallidamente su di essa. Nel succedersi di morti misteriose, si potrebbe pensare che la prima vittima sia proprio l’artista. L’arte si rifiuta di essere distrutta e si fa trovare, per raggiungere i carnefici che hanno abusato di lei e trasformarli in vittime.
Di spunti per andare oltre c’e n’erano molti. Ad esempio, la sciocca e arrivista Josephine (Zawe Ashton) chiede «a che serve l’arte se nessuno la guarda?!», né la compra o consuma, potremmo aggiungere. Da qui, ci si poteva collegare ad un discorso più raffinato sull’esibizione dell’arte. Essendo una forma di espressione, per essere battezzata come tale, essa ha, infatti, bisogno di un pubblico. Ma ciò esula dall’ottuso orizzonte del personaggio in questione e, purtroppo, dalla sceneggiatura stessa. Sceneggiatura promettente nella prima parte, ma che si trascina un po’ dopo un brusco passaggio narrativo.
Si rimane delusi anche davanti alla patina di horror e gore piuttosto ingenui e a tratti kitsch che attraversano buona parte di Velvet Buzzsaw e che risultano un tentativo di colpire lo spettatore, più che una scelta registica. Si gioca con stilemi base e stantii del genere, dai jumpscare all’ingenuità da manuale dei personaggi. E l’arte divoratrice e carnefice sposa sì l’idea della sceneggiatura, ma in modo abbastanza meccanico. Scivoloni che gettano ombra sulla cura per i costumi e una regia efficace.
Vecchie accuse senza nuove proposte
Per quanto si possa scavare, si tocca il fondo abbastanza presto. Si incontra ben più di uno stimolo interpretativo, eppure si viene presto lasciati soli in questo gioco.
Già in Nightcrawler il regista indagava l’oblio della morale sotto i colpi della spettacolarizzazione, senza però giungere ad una vera conclusione.
Qui il discorso cambia oggetto, ma la preoccupazione etica resta la stessa. Attraverso il consumismo (delle percezioni, per riprendere le parole di Rhodora citate prima) si inscena la mortificazione dell’arte. E, con essa, quella dell’umanità. A differenza di quanto accadeva nell’altro film, qui i personaggi sono passibili di punizione. Ma la sceneggiatura resta troppo in superficie e finisce per essere inutilmente didascalica.
Da una parte, abbiamo un palco di personaggi che sono macchiette stereotipate al pari delle loro battute ad effetto. Con loro, tematiche che si limitano a constatare l’ovvio. Dall’altra, un’accusa alla commercializzazione dell’arte verso cui non è chiaro che posizione bisognerebbe prendere. Non si sa se chi conserva un rapporto salubre con l’arte sia portavoce di una promessa o membro di una specie in via d’estinzione. Né si capisce se l’arte cerchi vendetta perché vorrebbe restare segreta e lontana dai riflettori o perché vorrebbe essere esposta in modo differente.
Al pari di Nightcrawler, Velvet Buzzsaw finisce senza abbracciare uno stile puramente descrittivo e fatalista alla fratelli Coen, né si fa carico di lanciare un messaggio. Come spesso accade, c’è la pars destruens, ma manca il suo momento dialettico. Volendo, la trama si esaurisce nel breve testo del brano usato nel trailer (Five Knives – Money). Tutto ciò che sentiamo è un’accusa, una delle tante, e quindi inutile.
Giovanni Di Rienzo