Il robot, come parola e come strumento, è ormai parte della nostra quotidianità. Dai robot industriali a quelli sociali (ancora in sperimentazione), buona parte dell’ingegneria si dedica al loro sviluppo e miglioramento. Processo che passa attraverso l’informatica, la programmazione, e, soprattutto, l’intelligenza artificiale. Il robot, dunque, è istintivamente concepito come meccanico, metallico, compimento della macchina. Sorprenderà sapere, invece, che il padre dei robot li concepì come esseri organici. Su suggerimento del fratello, Karel Čapek creò il neologismo a partire dalla parola ceca “robota” (lavoro forzato, schiavitù).
Nella sua opera Rossum’s Universal Robots, “robot” sta a indicare non un automa a immagine dell’uomo, ma una “seconda” umanità creata artificialmente. Il robot di Čapek si mostra da subito identico al suo creatore. Non necessità, come il suo successore meccanico, di infiniti miglioramenti prima di essere una copia esatta dell’essere umano.
Forse proprio per questo, fin dalla prima messa in scena nel 1921, R.U.R. diventa un successo planetario. Da una parte, vediamo il desiderio di creare automi meccanici capaci di liberare dal giogo del lavoro. Dall’altra la superbia di ergerci noi stessi a creatori e dare vita a esseri viventi a nostra immagine. Si tratta di temi ampiamente conosciuti e affrontati già in precedenza. Ma l’opera riesce a coniugare queste due vertiginose ambizioni umane, suggestive e al contempo spaventose, presagendo una tematica tuttora attuale.
Indice dell'articolo
La prima storia di robot
Come indicato da Čapek, l’opera è un “dramma collettivo in un prologo comico e tre atti”. Non ha dunque un vero protagonista e i toni sono eterogenei. Nel prologo, forse la parte più densa, si presenta il contesto e si illustrano le tematiche del testo. I tre atti, collocati dopo lo scoppio di una ribellione attuata dai robot, inscenano la disfatta dell’umanità.
I dirigenti della fabbrica di Rossum sono stereotipo e simbolo di una razza di creatori che soccombe alle proprie creazioni. Ma anche gli automi, liberatisi dal giogo materiale degli umani, restano idealmente vincolati ad essi. Sono infatti ignari delle modalità della loro (ri)produzione e quindi condannati. Il finale dai toni biblici, esaltazione dell’amore, mitiga a fatica il destino di sventura annunciato.
Cosa insegnano i primi robot di
Čapek
Vale la pena notare la presenza di temi e suggestioni che non hanno più abbandonato la relazione umano-robot né in campo letterario né nel mondo reale. Descrivendo i robot come una nuova stirpe di viventi, desiderosa di liberarsi dalla schiavitù, il R.U.R. di Čapek si pone già oltre la minaccia monodimensionale alla Terminator. Si assiste dunque all’ultima frontiera della lotta per l’esistenza, scevra di manicheismi, dove entrambe le parti reclamano il diritto alla vita.
Di sapore filosofico e sociologico è l’eterna contraddizione tra il desiderio di liberarsi dal lavoro e il concetto di lavoro come libertà e affermazione. Leggiamo nel prologo:
“…c’era una certa virtù anche nel lavoro e nella fatica” (p. 82)
Ma più avanti anche:
“Non era un sogno sbagliato […] spezzare la schiavitù del lavoro” (p. 122)
Tuttora ci si chiede se sia giusto investire massicciamente in I.A. andando verso un drastico cambiamento del mercato del lavoro, di cui è difficile pronosticare pro e contro.
Ulteriore spunto è il nesso tra dolore e coscienza, strumento ancora oggi utilizzato nella narrazione sui robot. Sono loro stessi ad affermare che dolore e sofferenza li hanno risvegliati dalla schiavitù. Esito accennato nel prologo con una suggestiva immagine:
“Lei ritiene che l’anima inizi a manifestarsi digrignando i denti?” (p. 79)
Calzante, infine, anche la distribuzione dell’avvento del robot in due fasi. Il “vecchio” Rossum, scopritore del composto che darà vita ai robot, è un materialista, ma non un tecnico. La decisione di “spodestare Dio in modo scientifico”, replicando perfettamente l’essere umano, indugia ancora nel gesto lento della ricerca e in un’etica dei ruoli. Sarà il “giovane” Rossum a convertire la grandiosa scoperta “al modo degli ingegneri”.
“Ha cancellato tutto ciò che non era direttamente legato al lavoro. In questo modo ha quindi eliminato l’uomo e creato il Robot” (p.67)
Tracce
L’eliminazione di attributi inutili echeggia fortemente la vergogna prometeica teorizzata dal filosofo G. Anders. Nel dramma di Čapek l’umanità crea una versione di sé più adeguata al lavoro perché priva di bisogni, mentre in Anders l’essere umano si sente vergognosamente gravato dal suo retaggio biologico, che gli impedisce di essere produttivo quanto la macchina. In entrambi i casi, l’essere umano, di fronte all’automa altamente efficiente, considera le proprie peculiarità alla stregua di difetti.
“La macchina umana […] era terribilmente imperfetta. Prima o poi andava sostituita” (p.77).
Si tratta solo di un esempio, poiché Čapek articola la sua opera attorno a tematiche cruciali per il ‘900 e oltre. Solo per fare qualche nome, si può pensare ad Heidegger, Anders, Sloterdijk, Baudrillard, Han, in ambito filosofico, per passare a Asimov, Dick, Lem nella narrativa, fino a film e serie tv come Ghost in the Shell e Westworld e videogiochi come Deus Ex e Detroit: Becoming Human. Il robot, e con esso l’intelligenza artificiale, resta tuttora la declinazione più interessante, e al contempo preoccupante in modo viscerale, del problema della tecnica. Scoprirne l’origine è un passo fondamentale per cercare di comprenderne il futuro.
Bibliografia
Karel Čapek, R.U.R. Rossum’s Universal Robots, trad. A. Catalano, Marsilio, Venezia 2018.
Giovanni Di Rienzo